
A me avevano ucciso un fratello
Testimonianza di Meschiari Fermo, partigiano Piombo,
classe 1928
Testimonianza di Meschiari Fermo, partigiano Piombo, classe 1928
Testimonianza di Meschiari Fermo, partigiano Piombo, classe 1928
Era il 1944 e mi alzavo alle due del mattino per andare a lavorare. Facevo il fornaio a Modena e mi chiamavano sceriffo perché mi piacevano i film western.
Un giorno dissi al mio padrone: «Ora basta, devo andare via.»
Mi chiese dove, ma io non glielo dissi. «Dove vado lo so io» risposi, perché sapevo che i partigiani dovevano essere riservati, fare molto e parlare poco. Quel poco che dicevano, però, doveva però essere la verità.
I fascisti facevano i rastrellamenti. Ti portavano in caserma e ti interrogavano. Un giorno presero anche me. Mi misero in fila e mi portarono dentro all’Accademia Militare di Modena, dove c’era il loro comando. Da lì molti sono entrati e non ne sono più venuti fuori. Io me la sono cavata soltanto perché ero il più giovane.
«Pussa via!» mi gridarono dopo avermi dato un calcio nel sedere, «Fuori! Va’ a casa e guai se torni indietro!»
Allora io scappai perché avevo paura. Però, dentro di me pensavo: «Io non mi dimentico la tua faccia. Se un giorno ti vedrò, non so cosa succederà.»
Ero fisionomista e molto vendicativo.
La mia è stata una scelta obbligata dai tempi, perché o ti nascondevi in casa o andavi su in montagna con i partigiani. Prima di partire abbracciai e baciai mia madre.
«Ciao mamma, io vado» le dissi, «ho degli amici che mi aspettano fuori. Partiamo.»
Lei mi rispose: «Fa’ bein a mod e torna a cà! 1»
«Vin bein a cà!» ripeté.
Mia mamma, poveretta, aveva sette figli e sei erano via da casa. Io ero il più piccolo.
Da Modena a Montefiorino erano sessanta chilometri: li camminammo tutti. Partimmo dai Mulini Nuovi2 alle sei del mattino che eravamo una manciata appena. Camminavamo in fila indiana. Passavamo solo per la campagna, mai per le strade. Campagna, campagna e solo campagna. A mano a mano che andavamo avanti il nostro gruppo diventava più grande.
Da Modena arrivammo fino a Sassuolo. Ricordo che passata la città c’era una casa nascosta. Lì, per farci forza, ci diedero da mangiare e da bere. Poi sempre per le campagne, su per le montagne, fino a Montefiorino. Arrivammo di sera. Montefiorino era stata liberata dai partigiani poco tempo prima ed era la Prima Repubblica Partigiana3. Lì i fascisti e i tedeschi non venivano quasi mai. Non si attentavano perché se eri fascista ed entravi a Montefiorino, non ne uscivi più. Restammo da quelle parti sette, otto mesi circa. Fino alla Liberazione.
Di notte o di mattina presto, andavamo giù a valle a catturare qualche fascista. Molti non li abbiamo uccisi soltanto perché erano fascisti. Prendevamo loro e i nazisti, che erano i peggiori, e facevamo passare loro il fronte, fin dove c’erano gli americani. Li radunavano nella zona di Firenze. Non era compito nostro giudicarli. Noi ci occupavamo soltanto dei fascisti che avevano ucciso i partigiani. Quelli che ci impiccavano, ci torturavano, ci facevano crepare di schianto… quelli che avevano fatto del male all’Italia. Loro rimasero con noi e non tornarono più a casa. L’avevano fatta troppo grossa e la guerra è guerra. Tremavano e piangevano dalla paura. Facevamo il processo, li passavamo per le armi e poi li seppellivamo sul luogo. Non c’erano mica i funerali, allora. Infilavamo in una delle loro tasche un pezzo di carta con scritto il loro nome perché sapevamo che un giorno qualcuno sarebbe venuto a riprenderseli. Dopo la guerra, in accordo con il Comitato Partigiano, sono stati riesumati e portati al cimitero.
Lassù c’erano i lanci degli americani, con cui eravamo in contatto. Allora gli apparecchi erano pochi perché i tedeschi ne tiravano giù molti. Prendevamo cinque o sei lenzuola da letto – bianche, rosse, verdi, l’importante era che si vedessero dall’alto – e le stendevamo sul prato. Qui è zona partigiana, volevano dire quelle lenzuola. Facevamo dei cenni agli apparecchi.
«Siamo noi i partigiani, buttate giù! Buttate giù!» dicevamo.
Gli apparecchi pian piano scendevano, facevano due giri e poi un segnale. Allora buttavano giù i paracadute con armi, munizioni, vestiti, cibo e cioccolato.
Gli americani ci fecero anche del male. I bombardamenti, mamma mia. Ci sono stato sotto, io. Arrivavano le fortezze volanti, i loro apparecchi enormi, e bombardavano la città. Anche Pippo era molto fastidioso. Scendeva in picchiata e mitragliava. Colpiva dove colpiva. Lui era mandato per smuovere l’opinione pubblica. Quando passava bisognava mettersi al riparo, nascondersi. E di nascosto, si sa, non si riesce a fare nulla.
Su in montagna, quando non combattevamo e c’era calma, stavamo in una casa privata che i montanari ci avevano prestato. Lì avevamo fatto la nostra camerata. Se non ci fossero stati i contadini, i montanari e gli americani, la lotta clandestina non si sarebbe fatta. Sono stati loro a salvarci. Del nostro gruppo siamo tornati quasi tutti. In montagna potevi salvarti.
Mio fratello Sergio lo presero in pianura. Ricordo quando eravamo a dormire assieme. Alle quattro del mattino l’ho sentito alzarsi dal letto.
«C’sa fet, Sergio? Cosa fai?» domandai.
Mi zittì.
«Se mi sente la mamma non mi lascia andare via!» disse.
Lui partì in silenzio e io tornai a letto. La mattina dopo, al mio risveglio la mamma mi chiese dove fosse finito.
«È andato dai partigiani a Carpi» risposi.
Era scioccata.
«Adesso i fascisti lo ammazzano!» disse.
Se n’era andato senza dire nulla perché la mamma non voleva.
Mio fratello Sergio aveva la fidanzata che abitava a Carpi ed era molto innamorato. Lo catturarono lì vicino. Lui e un altro partigiano, Alfonso Bruni, camminavano per strada e i fascisti erano nascosti dietro la siepe4. Li hanno torturati, li hanno sfigurati e poi li hanno fucilati. I miei genitori — mio padre che pedalava, mia madre seduta sulla canna della bicicletta — partirono da Carpi e andarono fino all’Accademia di Modena per riprendere il corpo di Sergio. Dissero che era diventato piccolo da quanto lo avevano torturato e dalle gran botte che aveva preso.
Poi finalmente venne il giorno della liberazione. Non puoi capire quello che è stato per noi partigiani in montagna, in campagna e nelle stalle. Gli americani passarono per le strade di Modena per tre giorni di fila. Dalle loro camionette urlavano:
«Come on! Come on! Come on!»
Saremo sempre grati, perché senza di loro non saremmo andati molto lontano: non avevamo niente.
Pian piano ogni brigata partigiana venne giù dalle montagne, con le bandiere, a sfilare. Le strade erano colme di gente di una felicità inimmaginabile. Ci applaudivano. Dopo, finita la sfilata, passammo per il viale di Modena. Lì c’era una botte. Baciammo le nostre armi e poi le mettemmo al suo interno. Quelle armi non ci servivano più e sarebbero state bruciate. Soltanto l’esercito regolare doveva essere armato.
Dopo, tra Sassuolo e Modena avevano formato un campo di internamento. Lì ci portavamo sia i fascisti che i tedeschi. Io ero uno dei capisquadra.
«Pussa via!» dicevo loro, «che ti venga un accidente, brutto maiale porco!»
Poi i tedeschi tornarono in Germania e i fascisti finirono in galera.
Abbiamo liberato l’Italia. L’abbiamo ricostruita, abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare sempre in democrazia. E pian piano, pian piano, tutto è tornato normale.
Quello della lotta clandestina fu un periodo in cui non era concesso sbagliare. Venivi ucciso, se lo facevi. La guerra è brutta perché distrugge tutto e tutti: porta miseria, fame, morte e paura, tanta paura. Oggi finalmente siamo in pace ed è possibile parlare e litigare. Anche se alcuni sono cattivi, si parla soltanto. Perché noi che abbiamo conosciuto la guerra l’abbiamo raccontata ai nostri figli e ai nostri nipoti, spiegando loro cosa vuol dire vivere nella miseria.
Ora dobbiamo vivere in pace, lavorare e costruire. Loro, i fascisti, ammazzavano, distruggevano, facevano di tutto. Se la gente si nascondeva nelle case, bruciavano anche quelle. Se eri partigiano, ti torturavano e poi ti ammazzavano. Certe cose le ricordo come se fossero accadute oggi.
Abbiamo parlato del passato e ora mi tremano le mani. Io la guerra l’ho toccata. La lotta clandestina partigiana è storia vera e io l’ho vissuta. Furono anni in cui serviva coraggio e io ne ho avuto. Avevo solo sedici anni e col mio mitra in spalla non avevo paura di nessuno. Perché a me avevano ucciso un fratello.
Era il 1944 e mi alzavo alle due del mattino per andare a lavorare. Facevo il fornaio a Modena e mi chiamavano sceriffo perché mi piacevano i film western.
Un giorno dissi al mio padrone: «Ora basta, devo andare via.»
Mi chiese dove, ma io non glielo dissi. «Dove vado lo so io» risposi, perché sapevo che i partigiani dovevano essere riservati, fare molto e parlare poco. Quel poco che dicevano, però, doveva però essere la verità.
I fascisti facevano i rastrellamenti. Ti portavano in caserma e ti interrogavano. Un giorno presero anche me. Mi misero in fila e mi portarono dentro all’Accademia Militare di Modena, dove c’era il loro comando. Da lì molti sono entrati e non ne sono più venuti fuori. Io me la sono cavata soltanto perché ero il più giovane.
«Pussa via!» mi gridarono dopo avermi dato un calcio nel sedere, «Fuori! Va’ a casa e guai se torni indietro!»
Allora io scappai perché avevo paura. Però, dentro di me pensavo: «Io non mi dimentico la tua faccia. Se un giorno ti vedrò, non so cosa succederà.»
Ero fisionomista e molto vendicativo.
La mia è stata una scelta obbligata dai tempi, perché o ti nascondevi in casa o andavi su in montagna con i partigiani. Prima di partire abbracciai e baciai mia madre.
«Ciao mamma, io vado» le dissi, «ho degli amici che mi aspettano fuori. Partiamo.»
Lei mi rispose: «Fa’ bein a mod e torna a cà! 1»
«Vin bein a cà!» ripeté.
Mia mamma, poveretta, aveva sette figli e sei erano via da casa. Io ero il più piccolo.
Da Modena a Montefiorino erano sessanta chilometri: li camminammo tutti. Partimmo dai Mulini Nuovi2 alle sei del mattino che eravamo una manciata appena. Camminavamo in fila indiana. Passavamo solo per la campagna, mai per le strade. Campagna, campagna e solo campagna. A mano a mano che andavamo avanti il nostro gruppo diventava più grande.
Da Modena arrivammo fino a Sassuolo. Ricordo che passata la città c’era una casa nascosta. Lì, per farci forza, ci diedero da mangiare e da bere. Poi sempre per le campagne, su per le montagne, fino a Montefiorino. Arrivammo di sera. Montefiorino era stata liberata dai partigiani poco tempo prima ed era la Prima Repubblica Partigiana3. Lì i fascisti e i tedeschi non venivano quasi mai. Non si attentavano perché se eri fascista ed entravi a Montefiorino, non ne uscivi più. Restammo da quelle parti sette, otto mesi circa. Fino alla Liberazione.
Di notte o di mattina presto, andavamo giù a valle a catturare qualche fascista. Molti non li abbiamo uccisi soltanto perché erano fascisti. Prendevamo loro e i nazisti, che erano i peggiori, e facevamo passare loro il fronte, fin dove c’erano gli americani. Li radunavano nella zona di Firenze. Non era compito nostro giudicarli. Noi ci occupavamo soltanto dei fascisti che avevano ucciso i partigiani. Quelli che ci impiccavano, ci torturavano, ci facevano crepare di schianto… quelli che avevano fatto del male all’Italia. Loro rimasero con noi e non tornarono più a casa. L’avevano fatta troppo grossa e la guerra è guerra. Tremavano e piangevano dalla paura. Facevamo il processo, li passavamo per le armi e poi li seppellivamo sul luogo. Non c’erano mica i funerali, allora. Infilavamo in una delle loro tasche un pezzo di carta con scritto il loro nome perché sapevamo che un giorno qualcuno sarebbe venuto a riprenderseli. Dopo la guerra, in accordo con il Comitato Partigiano, sono stati riesumati e portati al cimitero.
Lassù c’erano i lanci degli americani, con cui eravamo in contatto. Allora gli apparecchi erano pochi perché i tedeschi ne tiravano giù molti. Prendevamo cinque o sei lenzuola da letto – bianche, rosse, verdi, l’importante era che si vedessero dall’alto – e le stendevamo sul prato. Qui è zona partigiana, volevano dire quelle lenzuola. Facevamo dei cenni agli apparecchi.
«Siamo noi i partigiani, buttate giù! Buttate giù!» dicevamo.
Gli apparecchi pian piano scendevano, facevano due giri e poi un segnale. Allora buttavano giù i paracadute con armi, munizioni, vestiti, cibo e cioccolato.
Gli americani ci fecero anche del male. I bombardamenti, mamma mia. Ci sono stato sotto, io. Arrivavano le fortezze volanti, i loro apparecchi enormi, e bombardavano la città. Anche Pippo era molto fastidioso. Scendeva in picchiata e mitragliava. Colpiva dove colpiva. Lui era mandato per smuovere l’opinione pubblica. Quando passava bisognava mettersi al riparo, nascondersi. E di nascosto, si sa, non si riesce a fare nulla.
Su in montagna, quando non combattevamo e c’era calma, stavamo in una casa privata che i montanari ci avevano prestato. Lì avevamo fatto la nostra camerata. Se non ci fossero stati i contadini, i montanari e gli americani, la lotta clandestina non si sarebbe fatta. Sono stati loro a salvarci. Del nostro gruppo siamo tornati quasi tutti. In montagna potevi salvarti.
Mio fratello Sergio lo presero in pianura. Ricordo quando eravamo a dormire assieme. Alle quattro del mattino l’ho sentito alzarsi dal letto.
«C’sa fet, Sergio? Cosa fai?» domandai.
Mi zittì.
«Se mi sente la mamma non mi lascia andare via!» disse.
Lui partì in silenzio e io tornai a letto. La mattina dopo, al mio risveglio la mamma mi chiese dove fosse finito.
«È andato dai partigiani a Carpi» risposi.
Era scioccata.
«Adesso i fascisti lo ammazzano!» disse.
Se n’era andato senza dire nulla perché la mamma non voleva.
Mio fratello Sergio aveva la fidanzata che abitava a Carpi ed era molto innamorato. Lo catturarono lì vicino. Lui e un altro partigiano, Alfonso Bruni, camminavano per strada e i fascisti erano nascosti dietro la siepe4. Li hanno torturati, li hanno sfigurati e poi li hanno fucilati. I miei genitori — mio padre che pedalava, mia madre seduta sulla canna della bicicletta — partirono da Carpi e andarono fino all’Accademia di Modena per riprendere il corpo di Sergio. Dissero che era diventato piccolo da quanto lo avevano torturato e dalle gran botte che aveva preso.
Poi finalmente venne il giorno della liberazione. Non puoi capire quello che è stato per noi partigiani in montagna, in campagna e nelle stalle. Gli americani passarono per le strade di Modena per tre giorni di fila. Dalle loro camionette urlavano:
«Come on! Come on! Come on!»
Saremo sempre grati, perché senza di loro non saremmo andati molto lontano: non avevamo niente.
Pian piano ogni brigata partigiana venne giù dalle montagne, con le bandiere, a sfilare. Le strade erano colme di gente di una felicità inimmaginabile. Ci applaudivano. Dopo, finita la sfilata, passammo per il viale di Modena. Lì c’era una botte. Baciammo le nostre armi e poi le mettemmo al suo interno. Quelle armi non ci servivano più e sarebbero state bruciate. Soltanto l’esercito regolare doveva essere armato.
Dopo, tra Sassuolo e Modena avevano formato un campo di internamento. Lì ci portavamo sia i fascisti che i tedeschi. Io ero uno dei capisquadra.
«Pussa via!» dicevo loro, «che ti venga un accidente, brutto maiale porco!»
Poi i tedeschi tornarono in Germania e i fascisti finirono in galera.
Abbiamo liberato l’Italia. L’abbiamo ricostruita, abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare sempre in democrazia. E pian piano, pian piano, tutto è tornato normale.
Quello della lotta clandestina fu un periodo in cui non era concesso sbagliare. Venivi ucciso, se lo facevi. La guerra è brutta perché distrugge tutto e tutti: porta miseria, fame, morte e paura, tanta paura. Oggi finalmente siamo in pace ed è possibile parlare e litigare. Anche se alcuni sono cattivi, si parla soltanto. Perché noi che abbiamo conosciuto la guerra l’abbiamo raccontata ai nostri figli e ai nostri nipoti, spiegando loro cosa vuol dire vivere nella miseria.
Ora dobbiamo vivere in pace, lavorare e costruire. Loro, i fascisti, ammazzavano, distruggevano, facevano di tutto. Se la gente si nascondeva nelle case, bruciavano anche quelle. Se eri partigiano, ti torturavano e poi ti ammazzavano. Certe cose le ricordo come se fossero accadute oggi.
Abbiamo parlato del passato e ora mi tremano le mani. Io la guerra l’ho toccata. La lotta clandestina partigiana è storia vera e io l’ho vissuta. Furono anni in cui serviva coraggio e io ne ho avuto. Avevo solo sedici anni e col mio mitra in spalla non avevo paura di nessuno. Perché a me avevano ucciso un fratello.
Era il 1944 e mi alzavo alle due del mattino per andare a lavorare. Facevo il fornaio a Modena e mi chiamavano sceriffo perché mi piacevano i film western.
Un giorno dissi al mio padrone: «Ora basta, devo andare via.»
Mi chiese dove, ma io non glielo dissi. «Dove vado lo so io» risposi, perché sapevo che i partigiani dovevano essere riservati, fare molto e parlare poco. Quel poco che dicevano, però, doveva però essere la verità.
I fascisti facevano i rastrellamenti. Ti portavano in caserma e ti interrogavano. Un giorno presero anche me. Mi misero in fila e mi portarono dentro all’Accademia Militare di Modena, dove c’era il loro comando. Da lì molti sono entrati e non ne sono più venuti fuori. Io me la sono cavata soltanto perché ero il più giovane.
«Pussa via!» mi gridarono dopo avermi dato un calcio nel sedere, «Fuori! Va’ a casa e guai se torni indietro!»
Allora io scappai perché avevo paura. Però, dentro di me pensavo: «Io non mi dimentico la tua faccia. Se un giorno ti vedrò, non so cosa succederà.»
Ero fisionomista e molto vendicativo.
La mia è stata una scelta obbligata dai tempi, perché o ti nascondevi in casa o andavi su in montagna con i partigiani. Prima di partire abbracciai e baciai mia madre.
«Ciao mamma, io vado» le dissi, «ho degli amici che mi aspettano fuori. Partiamo.»
Lei mi rispose: «Fa’ bein a mod e torna a cà! 1»
«Vin bein a cà!» ripeté.
Mia mamma, poveretta, aveva sette figli e sei erano via da casa. Io ero il più piccolo.
Da Modena a Montefiorino erano sessanta chilometri: li camminammo tutti. Partimmo dai Mulini Nuovi2 alle sei del mattino che eravamo una manciata appena. Camminavamo in fila indiana. Passavamo solo per la campagna, mai per le strade. Campagna, campagna e solo campagna. A mano a mano che andavamo avanti il nostro gruppo diventava più grande.
Da Modena arrivammo fino a Sassuolo. Ricordo che passata la città c’era una casa nascosta. Lì, per farci forza, ci diedero da mangiare e da bere. Poi sempre per le campagne, su per le montagne, fino a Montefiorino. Arrivammo di sera. Montefiorino era stata liberata dai partigiani poco tempo prima ed era la Prima Repubblica Partigiana3. Lì i fascisti e i tedeschi non venivano quasi mai. Non si attentavano perché se eri fascista ed entravi a Montefiorino, non ne uscivi più. Restammo da quelle parti sette, otto mesi circa. Fino alla Liberazione.
Di notte o di mattina presto, andavamo giù a valle a catturare qualche fascista. Molti non li abbiamo uccisi soltanto perché erano fascisti. Prendevamo loro e i nazisti, che erano i peggiori, e facevamo passare loro il fronte, fin dove c’erano gli americani. Li radunavano nella zona di Firenze. Non era compito nostro giudicarli. Noi ci occupavamo soltanto dei fascisti che avevano ucciso i partigiani. Quelli che ci impiccavano, ci torturavano, ci facevano crepare di schianto… quelli che avevano fatto del male all’Italia. Loro rimasero con noi e non tornarono più a casa. L’avevano fatta troppo grossa e la guerra è guerra. Tremavano e piangevano dalla paura. Facevamo il processo, li passavamo per le armi e poi li seppellivamo sul luogo. Non c’erano mica i funerali, allora. Infilavamo in una delle loro tasche un pezzo di carta con scritto il loro nome perché sapevamo che un giorno qualcuno sarebbe venuto a riprenderseli. Dopo la guerra, in accordo con il Comitato Partigiano, sono stati riesumati e portati al cimitero.
Lassù c’erano i lanci degli americani, con cui eravamo in contatto. Allora gli apparecchi erano pochi perché i tedeschi ne tiravano giù molti. Prendevamo cinque o sei lenzuola da letto – bianche, rosse, verdi, l’importante era che si vedessero dall’alto – e le stendevamo sul prato. Qui è zona partigiana, volevano dire quelle lenzuola. Facevamo dei cenni agli apparecchi.
«Siamo noi i partigiani, buttate giù! Buttate giù!» dicevamo.
Gli apparecchi pian piano scendevano, facevano due giri e poi un segnale. Allora buttavano giù i paracadute con armi, munizioni, vestiti, cibo e cioccolato.
Gli americani ci fecero anche del male. I bombardamenti, mamma mia. Ci sono stato sotto, io. Arrivavano le fortezze volanti, i loro apparecchi enormi, e bombardavano la città. Anche Pippo era molto fastidioso. Scendeva in picchiata e mitragliava. Colpiva dove colpiva. Lui era mandato per smuovere l’opinione pubblica. Quando passava bisognava mettersi al riparo, nascondersi. E di nascosto, si sa, non si riesce a fare nulla.
Su in montagna, quando non combattevamo e c’era calma, stavamo in una casa privata che i montanari ci avevano prestato. Lì avevamo fatto la nostra camerata. Se non ci fossero stati i contadini, i montanari e gli americani, la lotta clandestina non si sarebbe fatta. Sono stati loro a salvarci. Del nostro gruppo siamo tornati quasi tutti. In montagna potevi salvarti.
Mio fratello Sergio lo presero in pianura. Ricordo quando eravamo a dormire assieme. Alle quattro del mattino l’ho sentito alzarsi dal letto.
«C’sa fet, Sergio? Cosa fai?» domandai.
Mi zittì.
«Se mi sente la mamma non mi lascia andare via!» disse.
Lui partì in silenzio e io tornai a letto. La mattina dopo, al mio risveglio la mamma mi chiese dove fosse finito.
«È andato dai partigiani a Carpi» risposi.
Era scioccata.
«Adesso i fascisti lo ammazzano!» disse.
Se n’era andato senza dire nulla perché la mamma non voleva.
Mio fratello Sergio aveva la fidanzata che abitava a Carpi ed era molto innamorato. Lo catturarono lì vicino. Lui e un altro partigiano, Alfonso Bruni, camminavano per strada e i fascisti erano nascosti dietro la siepe4. Li hanno torturati, li hanno sfigurati e poi li hanno fucilati. I miei genitori — mio padre che pedalava, mia madre seduta sulla canna della bicicletta — partirono da Carpi e andarono fino all’Accademia di Modena per riprendere il corpo di Sergio. Dissero che era diventato piccolo da quanto lo avevano torturato e dalle gran botte che aveva preso.
Poi finalmente venne il giorno della liberazione. Non puoi capire quello che è stato per noi partigiani in montagna, in campagna e nelle stalle. Gli americani passarono per le strade di Modena per tre giorni di fila. Dalle loro camionette urlavano:
«Come on! Come on! Come on!»
Saremo sempre grati, perché senza di loro non saremmo andati molto lontano: non avevamo niente.
Pian piano ogni brigata partigiana venne giù dalle montagne, con le bandiere, a sfilare. Le strade erano colme di gente di una felicità inimmaginabile. Ci applaudivano. Dopo, finita la sfilata, passammo per il viale di Modena. Lì c’era una botte. Baciammo le nostre armi e poi le mettemmo al suo interno. Quelle armi non ci servivano più e sarebbero state bruciate. Soltanto l’esercito regolare doveva essere armato.
Dopo, tra Sassuolo e Modena avevano formato un campo di internamento. Lì ci portavamo sia i fascisti che i tedeschi. Io ero uno dei capisquadra.
«Pussa via!» dicevo loro, «che ti venga un accidente, brutto maiale porco!»
Poi i tedeschi tornarono in Germania e i fascisti finirono in galera.
Abbiamo liberato l’Italia. L’abbiamo ricostruita, abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare sempre in democrazia. E pian piano, pian piano, tutto è tornato normale.
Quello della lotta clandestina fu un periodo in cui non era concesso sbagliare. Venivi ucciso, se lo facevi. La guerra è brutta perché distrugge tutto e tutti: porta miseria, fame, morte e paura, tanta paura. Oggi finalmente siamo in pace ed è possibile parlare e litigare. Anche se alcuni sono cattivi, si parla soltanto. Perché noi che abbiamo conosciuto la guerra l’abbiamo raccontata ai nostri figli e ai nostri nipoti, spiegando loro cosa vuol dire vivere nella miseria.
Ora dobbiamo vivere in pace, lavorare e costruire. Loro, i fascisti, ammazzavano, distruggevano, facevano di tutto. Se la gente si nascondeva nelle case, bruciavano anche quelle. Se eri partigiano, ti torturavano e poi ti ammazzavano. Certe cose le ricordo come se fossero accadute oggi.
Abbiamo parlato del passato e ora mi tremano le mani. Io la guerra l’ho toccata. La lotta clandestina partigiana è storia vera e io l’ho vissuta. Furono anni in cui serviva coraggio e io ne ho avuto. Avevo solo sedici anni e col mio mitra in spalla non avevo paura di nessuno. Perché a me avevano ucciso un fratello.
Ho scelto di riportare le espressioni dialettali come sono state pronunciate dagli intervistati stessi.
Borgo modenese costituito da diversi corpi fabbrica che ha origine poco dopo il 1520 per concessione dall’allora governatore della città, Francesco Guicciardini, in forza di un breve di papa Leone X. A. MANICARDI, A. ONOFRI, Il più bel fior ne coglie. Mulini ad acqua nella provincia di Modena, Azienda municipalizzata del Comune di Modena, Modena 1990, pp. 107-110.
La Repubblica di Montefiorino è una delle più importanti e conosciute esperienze di Repubblica partigiana, ma non è la prima. N. AUGERI, Le repubbliche partigiane – nascita di una democrazia, Spazio Tre, Milano 2010.
Un versione lievemente diversa della vicenda è raccontata in I. VACCARI, Dalla parte della libertà: i caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della provincia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese, Coop Estense, CITTA 1999, pp. 118, 325, 582: Sergio Meschiari, partigiano della Brg. “W. Tabacchi”, divis. Modena P., nome di battaglia “Papi” (altri testi riportano “Pepi” e altri ancora “Bepi”) venne catturato a Cibeno di Carpi con Alfonso Bruni, nome di battaglia “Marco”, durante un’azione di disarmo di una pattuglia. I due, tradotti a Villa Ascani, sede della Guardia nazionale repubblichina, vennero torturati e infine fucilati il 21 ottobre 1944 in località Mulini Nuovi.