Hai un bel coraggio!

Testimonianza di Vandello Cosimo, partigiano Sandro,
classe 1927

Testimonianza di Vandello Cosimo, partigiano Sandro,
classe 1927.

Testimonianza di Vandello Cosimo, partigiano Sandro, classe 1927.

Partiamo dal principio: si viveva con niente, una volta. Io ho cominciato a lavorare che dovevo ancora nascere. Mio padre Evaristo, non aveva voglia di fare bene: era un socialista e quando ero piccolo dovette emigrare in Francia. Mia madre rimase a casa, sola e con quattro figli: io, mio fratello Giuseppe e le mie sorelle Paola e Iolanda. Abitavo a Levizzano e andavo a lavorare dai miei zii che erano contadini.


Sono venuto a Vignola che avevo undici anni. A quindici falsificai il libretto del lavoro per poter lavorare alla SIPE1: prendevano soltanto chi aveva più di sedici anni e io, nato il 3 settembre del 1927, ne avevo meno. Lì fabbricavo i bussolotti d’alluminio che servivano per costruire le bombe a mano. Partecipai al grande sciopero del 28 luglio 19432, al termine del quale in tanti furono arrestati.


Quando i tedeschi presero il controllo della fabbrica, durante l’occupazione, io tornai a casa. Poco dopo la mia domanda per lavorare alla Todt venne accettata: il mio compito era quello di andare a riparare le linee ferroviarie colpite dai bombardamenti degli americani. Una volta, ci trovavamo a Imola e stavamo aggiustando un tratto della ferrovia. Quando arrivarono gli apparecchi americani, io riuscii a ripararmi dietro a un vagone. Il mio collega non fece in tempo e si prese una mitragliata nella schiena. Morì all’istante.


Qualche giorno dopo il Natale del 1943, gli americani bombardarono la ferrovia di Reggio. Allora noi eravamo a dormire a Cento di Ferrara. Partimmo per andare a ripararla. Era mattino presto e c’era la nebbia. Passammo per un camminamento che portava alla ferrovia. Lì vidi un largo in cui vi erano diversi cadaveri. Avevano le teste allineate e i volti irriconoscibili. Pensai che fossero le vittime dei bombardamenti. Allora l’accompagnatore disse che quelli erano i sette fratelli Cervi. Se fosse vero e no, non lo so, non ci siamo fermati3. Aggiustammo la ferrovia e tornammo a Cento di Ferrara.


Poche settimane dopo, nel 1944, i tedeschi mandarono una cartolina che diceva di andare a lavorare in Germania per loro. Io mi rifiutai. Allora un manipolo di carabinieri venne a prendermi a casa e mi portarono in caserma, dove un maresciallo mi diede schiaffi, calci nella pancia e compagnia bella perché dicevano che dovevo fare il mio dovere per servire la patria e tutto il resto. Mi rifiutai ancora. Allora loro mi caricarono sulla littorina che andava a Casalecchio, dove in una villa era stanziato un comando tedesco. Quando fu il momento di scendere, approfittai del fatto che ci fosse molta gente per scappare. Avevo solo sedici anni e andai a casa di un amico. Non potevo tornare a casa mia perché sapevo che sarebbero tornati a cercarmi. E infatti fecero così, ma io ero già lontano.


Camminavo sempre scalzo, allora. Avevo rotto le scarpe. Così, assieme ad altri quattro, decidemmo di andare tra i partigiani. Siamo partiti, ci siamo fermati a Rocchetta di Trentino, un po’ prima di Fanano. Lì sapevamo esserci un gruppo di partigiani. Mi venne la febbre alta e mi misero a letto: il giorno dopo dovevamo partire per Montefiorino. Al mattino la febbre era sparita e, attraversando la Giardini, raggiungemmo Montefiorino. Là ci fecero scavare delle buche. Credo volessero fucilarci perché avevamo detto loro di avere lavorato per la Todt. Fortunatamente incontrammo Farinein, che mi conosceva perché prima era birocciaio lì da noi.


A Montefiorino, un giorno, a me e a un amico venne ordinato di andare a fare la guardia alla strada Giardini. Dovevamo controllare che non arrivassero tedeschi o fascisti. Ci mettemmo a chiacchierare. C’era silenzio, allora. Non c’erano macchine, non c’era niente. A un certo punto sentimmo un rumore alle nostre spalle: trick track. Ci voltammo in tempo per vedere quattro tedeschi che prendevano la mira su di noi. Sparai una scarica di mitra e scappammo. Sentimmo fischiare le pallottole poco lontano dalle nostre teste, ma non ci colpirono. Fummo fortunati. Perché nella vita, specie in tempo di guerra, bisogna essere fortunati per saltarci fuori. Ci buttammo in un fosso in cui c’erano tante di quelle spine… e io ero sempre scalzo. Pochi istanti dopo, una mitragliatrice dei partigiani, sopra di noi, cominciò a sparare.


Dopo il famoso combattimento di Montefiorino, fu necessario sganciarsi. Attraversammo la Giardini e scendemmo fino a una località che si trovava un po’ prima di Madonna Dell’Alce. Da lì, andammo ancora più giù, a Madonna dell’Acero. Lì dormimmo in una chiesa. Il prete non c’era mica più.


Poi combattemmo a Sassoguidano contro i tedeschi della 65° Fanteria. Contammo una decina di morti tra le nostre file. Non ricordo il numero preciso un po’ per la vecchiaia e un po’ perché allora ero solo un ragazzo ed ero l’ultimo a ricevere le notizie. Al combattimento partecipò anche Armando4. Ero rimasto un po’ indietro e i tedeschi mitragliavano.

Lui mi disse: «Sta’ giù con la testa!».

Lo guardai, lui non stava giù.

«Perché non sta giù anche lei?» domandai.

E lui rispose che conosceva il tiro di quella mitraglia.


Attraversammo il Panaro. Il ponte non c’era più, l’avevano fatto saltare per aria. Era estate inoltrata e c’era poca acqua. Al di là del fiume, sentimmo del viavai. Scoprimmo un soldato tedesco e uno polacco che venivano giù per la strada da Montese assieme a nove cavalli. Disarmammo i due soldati e portammo i cavalli al comandante di formazione, che era distante cinquecento metri da lì ed era un bravo ragazzo di Zocca. E io, primavera, inverno o estate che fosse, ero sempre scalzo. Erano mesi che giravo senza scarpe e avevo i piedi distrutti. Forse per questo, mi lasciò uno di quei cavalli, nero e bello, che mi buttò anche a terra una volta o due. Verso la fine dell’anno, stavamo passando su una sponda del lago Pratignano. Faceva freddo, pioveva e nevicava. Il mio cavallo perse l’equilibrio, anche a causa del terreno fangoso, e cadde nel lago. Io feci in tempo a scendere e a mettermi in salvo, ma lui annegò. Tornai scalzo. Dovetti fare sei chilometri a piedi sulla neve.


Poi la mia formazione si fermò a Madonna dell’Acero. Lì, i soldati brasiliani giocavano a football in un campetto da calcio e chiacchieravano. A Lizzano del Belvedere lavammo la roba che avevamo addosso. I vestiti vennero tutti bolliti perché sai, erano mesi che dormivamo nelle tése5 e nelle chiese, e sempre per terra. Non avevamo mica i materassi!


Una sera di quell’inverno, il mio gruppo si stava spostando verso Sestola. Avevamo molta fame perché in quel periodo mica sempre si riusciva a trovare qualcosa da mangiare. Non c’era la strada allora, ma soltanto un argine di sassi che portava alla chiesa del luogo. Il cavallo di uno di noi urtò contro un masso che rotolò e scoprì un prosciutto bello grosso e qualche salame. Prendemmo tutto: molto probabilmente era cibo nascosto da chi abitava nelle case lì di fronte, ormai disabitate per via dei rastrellamenti. Coi panni fradici addosso, ci rifugiammo nella chiesa, anch’essa deserta, per la notte. Eravamo in poco più di una decina e uno di noi aveva un coltello, che usò per tagliare il prosciutto e i salami. Mangiammo tutto, senza pane. Avrei mangiato anche le ossa… la fame era proprio una brutta bestia.


Un’altra volta, mi ritrovai davanti a una casa, in mezzo al bosco. Lì, una signora aveva fatto delle frittelle di castagne. Avevo diciassette anni ed erano tre giorni che non mangiavo.

«Le posso assaggiare?» domandai, «sono giorni che non mangio.»

Lei rispose di sì.

Mangiai una frittella, poi un’altra e un’altra ancora… pian piano gliele mangiai tutte. Mi sentii in colpa. Ero pentito e mi dispiaceva, ma lei abitava in un bosco con diversi castagni e senz’altro aveva la farina per farne altre.


Poco dopo gli americani della 5a Armata ci raggiunsero. Indossando le loro divise, ci spostammo fino al Monte Belvedere, ancora in mano ai tedeschi. Il nostro primo combattimento assieme agli americani fu alla fine dell’ottobre del 1944: il tempo era pessimo e faceva freddo. Il primo attacco riuscì, ma non so per quale ragione gli americani ordinarono la ritirata. Dopo il combattimento, mi diedero una scatoletta di cibo. La mangiai e cominciai a sputare sangue… ero deperito a quel punto. Allora mi portarono al confine della Toscana, in un ospedale da campo americano, dove rimasi a riposo per alcuni giorni. Alcuni soldati americani entrarono nella tenda per vedere me, il partigiano comunista, perché secondo loro tutti i partigiani lo erano. Io allora non sapevo neanche che cosa volesse dire essere comunista. Secondo me rimasero delusi: ero deperito e pesavo a stento una cinquantina di chili.


Quando mi fui ripreso tornai al fronte in tempo per la conquista di Monte Belvedere. La notte prima dell’ultimo attacco fu qualcosa di particolare: i bombardamenti degli americani illuminavano a giorno le montagne e il terreno era tutto un buco. Al mattino presto attaccammo e una quindicina di soldati tedeschi si arresero. Anche loro erano magrissimi e ne avevano fin sopra i capelli della guerra.


Assieme agli americani prendemmo anche Fanano e Sestola. Da Fanano a Sestola c’era un camminamento minato. Se mettevi un piede di traverso, facevi saltare per aria tutti. Poi scendemmo fino a Pavullo, e da lì a Serramazzoni. Venendo giù da Serramazzoni vidi due tedeschi in fuga. Io ero vestito da americano e loro avevano paura di me. Puntai il fucile contro di loro e si arresero. Scesi giù per i campi e consegnai i due prigionieri ai partigiani che c’erano a Levizzano, dove abitava anche mia madre. Uno o due giorni dopo partii, a bordo di un camioncino scoperto, per andare a Modena. Durante il tragitto il camioncino si ribaltò e rimasi ferito a una mano.


Arrivò il 25 aprile 1945 e la guerra finì. A Modena, il 29 aprile 1945 sfilammo partendo dall’Accademia Militare di Modena. Le persone erano felici, ci abbracciavano e festeggiavano assieme a noi. Una signora si avvicinò mentre camminavo. Forse avrà visto quanto ero magro, perché mi diede del Vov da bere. Io, il Vov, non sapevo neanche cosa fosse. Ci rendemmo conto, però, che nel liquido galleggiava una cavalletta morta. La signora, poverina, se ne accorse e ci rimase male. Allora io presi la cavalletta, la buttai via e infine bevvi il liquore. Lei, battendo le mani, mi disse: «Hai un bel coraggio!»

Di paura, in quel periodo, non ne avevo mica tanta: allora non si dava il giusto valore alla vita. Vivere o morire era uguale. Quando si è cominciato a stare bene, si è cominciato a dare il giusto valore alla vita.


Dopo sono stato nella polizia partigiana: alle donnette rasavamo la testa e i fascisti che avevano fatto delle cose mica belle li mettevamo in cella. Io facevo la guardia. Un giorno, dopo un po’ di tempo, gli americani ci condussero nel cortile della questura. Saremo stati una ventina di ex-partigiani.

«Mettete giù le armi e andatevene» ci dissero.

Io ero giovane, avevo sì e no diciotto anni, e allora tornai a casa.


Ne ho subite di tutti i colori. Ho visto dei miei compagni morire e stare male. Solo ricordarlo mi fa venire da piangere. Di fare la guerra non bisognerebbe nemmeno parlarne. Che vadano a farla le persone che la ordinano. Che si ammazzino tra di loro finché vogliono. Oggi, l’importante è mantenere la pace. La vita deve essere fatta di pace e non di guerre e distruzioni, per l’amor del cielo. C’è possibilità di vita per tutti. È vero o no?

Partiamo dal principio: si viveva con niente, una volta. Io ho cominciato a lavorare che dovevo ancora nascere. Mio padre Evaristo, non aveva voglia di fare bene: era un socialista e quando ero piccolo dovette emigrare in Francia. Mia madre rimase a casa, sola e con quattro figli: io, mio fratello Giuseppe e le mie sorelle Paola e Iolanda. Abitavo a Levizzano e andavo a lavorare dai miei zii che erano contadini.


Sono venuto a Vignola che avevo undici anni. A quindici falsificai il libretto del lavoro per poter lavorare alla SIPE1: prendevano soltanto chi aveva più di sedici anni e io, nato il 3 settembre del 1927, ne avevo meno. Lì fabbricavo i bussolotti d’alluminio che servivano per costruire le bombe a mano. Partecipai al grande sciopero del 28 luglio 19432, al termine del quale in tanti furono arrestati.


Quando i tedeschi presero il controllo della fabbrica, durante l’occupazione, io tornai a casa. Poco dopo la mia domanda per lavorare alla Todt venne accettata: il mio compito era quello di andare a riparare le linee ferroviarie colpite dai bombardamenti degli americani. Una volta, ci trovavamo a Imola e stavamo aggiustando un tratto della ferrovia. Quando arrivarono gli apparecchi americani, io riuscii a ripararmi dietro a un vagone. Il mio collega non fece in tempo e si prese una mitragliata nella schiena. Morì all’istante.


Qualche giorno dopo il Natale del 1943, gli americani bombardarono la ferrovia di Reggio. Allora noi eravamo a dormire a Cento di Ferrara. Partimmo per andare a ripararla. Era mattino presto e c’era la nebbia. Passammo per un camminamento che portava alla ferrovia. Lì vidi un largo in cui vi erano diversi cadaveri. Avevano le teste allineate e i volti irriconoscibili. Pensai che fossero le vittime dei bombardamenti. Allora l’accompagnatore disse che quelli erano i sette fratelli Cervi. Se fosse vero e no, non lo so, non ci siamo fermati3. Aggiustammo la ferrovia e tornammo a Cento di Ferrara.


Poche settimane dopo, nel 1944, i tedeschi mandarono una cartolina che diceva di andare a lavorare in Germania per loro. Io mi rifiutai. Allora un manipolo di carabinieri venne a prendermi a casa e mi portarono in caserma, dove un maresciallo mi diede schiaffi, calci nella pancia e compagnia bella perché dicevano che dovevo fare il mio dovere per servire la patria e tutto il resto. Mi rifiutai ancora. Allora loro mi caricarono sulla littorina che andava a Casalecchio, dove in una villa era stanziato un comando tedesco. Quando fu il momento di scendere, approfittai del fatto che ci fosse molta gente per scappare. Avevo solo sedici anni e andai a casa di un amico. Non potevo tornare a casa mia perché sapevo che sarebbero tornati a cercarmi. E infatti fecero così, ma io ero già lontano.


Camminavo sempre scalzo, allora. Avevo rotto le scarpe. Così, assieme ad altri quattro, decidemmo di andare tra i partigiani. Siamo partiti, ci siamo fermati a Rocchetta di Trentino, un po’ prima di Fanano. Lì sapevamo esserci un gruppo di partigiani. Mi venne la febbre alta e mi misero a letto: il giorno dopo dovevamo partire per Montefiorino. Al mattino la febbre era sparita e, attraversando la Giardini, raggiungemmo Montefiorino. Là ci fecero scavare delle buche. Credo volessero fucilarci perché avevamo detto loro di avere lavorato per la Todt. Fortunatamente incontrammo Farinein, che mi conosceva perché prima era birocciaio lì da noi.


A Montefiorino, un giorno, a me e a un amico venne ordinato di andare a fare la guardia alla strada Giardini. Dovevamo controllare che non arrivassero tedeschi o fascisti. Ci mettemmo a chiacchierare. C’era silenzio, allora. Non c’erano macchine, non c’era niente. A un certo punto sentimmo un rumore alle nostre spalle: trick track. Ci voltammo in tempo per vedere quattro tedeschi che prendevano la mira su di noi. Sparai una scarica di mitra e scappammo. Sentimmo fischiare le pallottole poco lontano dalle nostre teste, ma non ci colpirono. Fummo fortunati. Perché nella vita, specie in tempo di guerra, bisogna essere fortunati per saltarci fuori. Ci buttammo in un fosso in cui c’erano tante di quelle spine… e io ero sempre scalzo. Pochi istanti dopo, una mitragliatrice dei partigiani, sopra di noi, cominciò a sparare.


Dopo il famoso combattimento di Montefiorino, fu necessario sganciarsi. Attraversammo la Giardini e scendemmo fino a una località che si trovava un po’ prima di Madonna Dell’Alce. Da lì, andammo ancora più giù, a Madonna dell’Acero. Lì dormimmo in una chiesa. Il prete non c’era mica più.


Poi combattemmo a Sassoguidano contro i tedeschi della 65° Fanteria. Contammo una decina di morti tra le nostre file. Non ricordo il numero preciso un po’ per la vecchiaia e un po’ perché allora ero solo un ragazzo ed ero l’ultimo a ricevere le notizie. Al combattimento partecipò anche Armando4. Ero rimasto un po’ indietro e i tedeschi mitragliavano.

Lui mi disse: «Sta’ giù con la testa!».

Lo guardai, lui non stava giù.

«Perché non sta giù anche lei?» domandai.

E lui rispose che conosceva il tiro di quella mitraglia.


Attraversammo il Panaro. Il ponte non c’era più, l’avevano fatto saltare per aria. Era estate inoltrata e c’era poca acqua. Al di là del fiume, sentimmo del viavai. Scoprimmo un soldato tedesco e uno polacco che venivano giù per la strada da Montese assieme a nove cavalli. Disarmammo i due soldati e portammo i cavalli al comandante di formazione, che era distante cinquecento metri da lì ed era un bravo ragazzo di Zocca. E io, primavera, inverno o estate che fosse, ero sempre scalzo. Erano mesi che giravo senza scarpe e avevo i piedi distrutti. Forse per questo, mi lasciò uno di quei cavalli, nero e bello, che mi buttò anche a terra una volta o due. Verso la fine dell’anno, stavamo passando su una sponda del lago Pratignano. Faceva freddo, pioveva e nevicava. Il mio cavallo perse l’equilibrio, anche a causa del terreno fangoso, e cadde nel lago. Io feci in tempo a scendere e a mettermi in salvo, ma lui annegò. Tornai scalzo. Dovetti fare sei chilometri a piedi sulla neve.


Poi la mia formazione si fermò a Madonna dell’Acero. Lì, i soldati brasiliani giocavano a football in un campetto da calcio e chiacchieravano. A Lizzano del Belvedere lavammo la roba che avevamo addosso. I vestiti vennero tutti bolliti perché sai, erano mesi che dormivamo nelle tése5 e nelle chiese, e sempre per terra. Non avevamo mica i materassi!


Una sera di quell’inverno, il mio gruppo si stava spostando verso Sestola. Avevamo molta fame perché in quel periodo mica sempre si riusciva a trovare qualcosa da mangiare. Non c’era la strada allora, ma soltanto un argine di sassi che portava alla chiesa del luogo. Il cavallo di uno di noi urtò contro un masso che rotolò e scoprì un prosciutto bello grosso e qualche salame. Prendemmo tutto: molto probabilmente era cibo nascosto da chi abitava nelle case lì di fronte, ormai disabitate per via dei rastrellamenti. Coi panni fradici addosso, ci rifugiammo nella chiesa, anch’essa deserta, per la notte. Eravamo in poco più di una decina e uno di noi aveva un coltello, che usò per tagliare il prosciutto e i salami. Mangiammo tutto, senza pane. Avrei mangiato anche le ossa… la fame era proprio una brutta bestia.


Un’altra volta, mi ritrovai davanti a una casa, in mezzo al bosco. Lì, una signora aveva fatto delle frittelle di castagne. Avevo diciassette anni ed erano tre giorni che non mangiavo.

«Le posso assaggiare?» domandai, «sono giorni che non mangio.»

Lei rispose di sì.

Mangiai una frittella, poi un’altra e un’altra ancora… pian piano gliele mangiai tutte. Mi sentii in colpa. Ero pentito e mi dispiaceva, ma lei abitava in un bosco con diversi castagni e senz’altro aveva la farina per farne altre.


Poco dopo gli americani della 5a Armata ci raggiunsero. Indossando le loro divise, ci spostammo fino al Monte Belvedere, ancora in mano ai tedeschi. Il nostro primo combattimento assieme agli americani fu alla fine dell’ottobre del 1944: il tempo era pessimo e faceva freddo. Il primo attacco riuscì, ma non so per quale ragione gli americani ordinarono la ritirata. Dopo il combattimento, mi diedero una scatoletta di cibo. La mangiai e cominciai a sputare sangue… ero deperito a quel punto. Allora mi portarono al confine della Toscana, in un ospedale da campo americano, dove rimasi a riposo per alcuni giorni. Alcuni soldati americani entrarono nella tenda per vedere me, il partigiano comunista, perché secondo loro tutti i partigiani lo erano. Io allora non sapevo neanche che cosa volesse dire essere comunista. Secondo me rimasero delusi: ero deperito e pesavo a stento una cinquantina di chili.


Quando mi fui ripreso tornai al fronte in tempo per la conquista di Monte Belvedere. La notte prima dell’ultimo attacco fu qualcosa di particolare: i bombardamenti degli americani illuminavano a giorno le montagne e il terreno era tutto un buco. Al mattino presto attaccammo e una quindicina di soldati tedeschi si arresero. Anche loro erano magrissimi e ne avevano fin sopra i capelli della guerra.


Assieme agli americani prendemmo anche Fanano e Sestola. Da Fanano a Sestola c’era un camminamento minato. Se mettevi un piede di traverso, facevi saltare per aria tutti. Poi scendemmo fino a Pavullo, e da lì a Serramazzoni. Venendo giù da Serramazzoni vidi due tedeschi in fuga. Io ero vestito da americano e loro avevano paura di me. Puntai il fucile contro di loro e si arresero. Scesi giù per i campi e consegnai i due prigionieri ai partigiani che c’erano a Levizzano, dove abitava anche mia madre. Uno o due giorni dopo partii, a bordo di un camioncino scoperto, per andare a Modena. Durante il tragitto il camioncino si ribaltò e rimasi ferito a una mano.


Arrivò il 25 aprile 1945 e la guerra finì. A Modena, il 29 aprile 1945 sfilammo partendo dall’Accademia Militare di Modena. Le persone erano felici, ci abbracciavano e festeggiavano assieme a noi. Una signora si avvicinò mentre camminavo. Forse avrà visto quanto ero magro, perché mi diede del Vov da bere. Io, il Vov, non sapevo neanche cosa fosse. Ci rendemmo conto, però, che nel liquido galleggiava una cavalletta morta. La signora, poverina, se ne accorse e ci rimase male. Allora io presi la cavalletta, la buttai via e infine bevvi il liquore. Lei, battendo le mani, mi disse: «Hai un bel coraggio!»

Di paura, in quel periodo, non ne avevo mica tanta: allora non si dava il giusto valore alla vita. Vivere o morire era uguale. Quando si è cominciato a stare bene, si è cominciato a dare il giusto valore alla vita.


Dopo sono stato nella polizia partigiana: alle donnette rasavamo la testa e i fascisti che avevano fatto delle cose mica belle li mettevamo in cella. Io facevo la guardia. Un giorno, dopo un po’ di tempo, gli americani ci condussero nel cortile della questura. Saremo stati una ventina di ex-partigiani.

«Mettete giù le armi e andatevene» ci dissero.

Io ero giovane, avevo sì e no diciotto anni, e allora tornai a casa.


Ne ho subite di tutti i colori. Ho visto dei miei compagni morire e stare male. Solo ricordarlo mi fa venire da piangere. Di fare la guerra non bisognerebbe nemmeno parlarne. Che vadano a farla le persone che la ordinano. Che si ammazzino tra di loro finché vogliono. Oggi, l’importante è mantenere la pace. La vita deve essere fatta di pace e non di guerre e distruzioni, per l’amor del cielo. C’è possibilità di vita per tutti. È vero o no?

Partiamo dal principio: si viveva con niente, una volta. Io ho cominciato a lavorare che dovevo ancora nascere. Mio padre Evaristo, non aveva voglia di fare bene: era un socialista e quando ero piccolo dovette emigrare in Francia. Mia madre rimase a casa, sola e con quattro figli: io, mio fratello Giuseppe e le mie sorelle Paola e Iolanda. Abitavo a Levizzano e andavo a lavorare dai miei zii che erano contadini.


Sono venuto a Vignola che avevo undici anni. A quindici falsificai il libretto del lavoro per poter lavorare alla SIPE1: prendevano soltanto chi aveva più di sedici anni e io, nato il 3 settembre del 1927, ne avevo meno. Lì fabbricavo i bussolotti d’alluminio che servivano per costruire le bombe a mano. Partecipai al grande sciopero del 28 luglio 19432, al termine del quale in tanti furono arrestati.


Quando i tedeschi presero il controllo della fabbrica, durante l’occupazione, io tornai a casa. Poco dopo la mia domanda per lavorare alla Todt venne accettata: il mio compito era quello di andare a riparare le linee ferroviarie colpite dai bombardamenti degli americani. Una volta, ci trovavamo a Imola e stavamo aggiustando un tratto della ferrovia. Quando arrivarono gli apparecchi americani, io riuscii a ripararmi dietro a un vagone. Il mio collega non fece in tempo e si prese una mitragliata nella schiena. Morì all’istante.


Qualche giorno dopo il Natale del 1943, gli americani bombardarono la ferrovia di Reggio. Allora noi eravamo a dormire a Cento di Ferrara. Partimmo per andare a ripararla. Era mattino presto e c’era la nebbia. Passammo per un camminamento che portava alla ferrovia. Lì vidi un largo in cui vi erano diversi cadaveri. Avevano le teste allineate e i volti irriconoscibili. Pensai che fossero le vittime dei bombardamenti. Allora l’accompagnatore disse che quelli erano i sette fratelli Cervi. Se fosse vero e no, non lo so, non ci siamo fermati3. Aggiustammo la ferrovia e tornammo a Cento di Ferrara.


Poche settimane dopo, nel 1944, i tedeschi mandarono una cartolina che diceva di andare a lavorare in Germania per loro. Io mi rifiutai. Allora un manipolo di carabinieri venne a prendermi a casa e mi portarono in caserma, dove un maresciallo mi diede schiaffi, calci nella pancia e compagnia bella perché dicevano che dovevo fare il mio dovere per servire la patria e tutto il resto. Mi rifiutai ancora. Allora loro mi caricarono sulla littorina che andava a Casalecchio, dove in una villa era stanziato un comando tedesco. Quando fu il momento di scendere, approfittai del fatto che ci fosse molta gente per scappare. Avevo solo sedici anni e andai a casa di un amico. Non potevo tornare a casa mia perché sapevo che sarebbero tornati a cercarmi. E infatti fecero così, ma io ero già lontano.


Camminavo sempre scalzo, allora. Avevo rotto le scarpe. Così, assieme ad altri quattro, decidemmo di andare tra i partigiani. Siamo partiti, ci siamo fermati a Rocchetta di Trentino, un po’ prima di Fanano. Lì sapevamo esserci un gruppo di partigiani. Mi venne la febbre alta e mi misero a letto: il giorno dopo dovevamo partire per Montefiorino. Al mattino la febbre era sparita e, attraversando la Giardini, raggiungemmo Montefiorino. Là ci fecero scavare delle buche. Credo volessero fucilarci perché avevamo detto loro di avere lavorato per la Todt. Fortunatamente incontrammo Farinein, che mi conosceva perché prima era birocciaio lì da noi.


A Montefiorino, un giorno, a me e a un amico venne ordinato di andare a fare la guardia alla strada Giardini. Dovevamo controllare che non arrivassero tedeschi o fascisti. Ci mettemmo a chiacchierare. C’era silenzio, allora. Non c’erano macchine, non c’era niente. A un certo punto sentimmo un rumore alle nostre spalle: trick track. Ci voltammo in tempo per vedere quattro tedeschi che prendevano la mira su di noi. Sparai una scarica di mitra e scappammo. Sentimmo fischiare le pallottole poco lontano dalle nostre teste, ma non ci colpirono. Fummo fortunati. Perché nella vita, specie in tempo di guerra, bisogna essere fortunati per saltarci fuori. Ci buttammo in un fosso in cui c’erano tante di quelle spine… e io ero sempre scalzo. Pochi istanti dopo, una mitragliatrice dei partigiani, sopra di noi, cominciò a sparare.


Dopo il famoso combattimento di Montefiorino, fu necessario sganciarsi. Attraversammo la Giardini e scendemmo fino a una località che si trovava un po’ prima di Madonna Dell’Alce. Da lì, andammo ancora più giù, a Madonna dell’Acero. Lì dormimmo in una chiesa. Il prete non c’era mica più.


Poi combattemmo a Sassoguidano contro i tedeschi della 65° Fanteria. Contammo una decina di morti tra le nostre file. Non ricordo il numero preciso un po’ per la vecchiaia e un po’ perché allora ero solo un ragazzo ed ero l’ultimo a ricevere le notizie. Al combattimento partecipò anche Armando4. Ero rimasto un po’ indietro e i tedeschi mitragliavano.

Lui mi disse: «Sta’ giù con la testa!».

Lo guardai, lui non stava giù.

«Perché non sta giù anche lei?» domandai.

E lui rispose che conosceva il tiro di quella mitraglia.


Attraversammo il Panaro. Il ponte non c’era più, l’avevano fatto saltare per aria. Era estate inoltrata e c’era poca acqua. Al di là del fiume, sentimmo del viavai. Scoprimmo un soldato tedesco e uno polacco che venivano giù per la strada da Montese assieme a nove cavalli. Disarmammo i due soldati e portammo i cavalli al comandante di formazione, che era distante cinquecento metri da lì ed era un bravo ragazzo di Zocca. E io, primavera, inverno o estate che fosse, ero sempre scalzo. Erano mesi che giravo senza scarpe e avevo i piedi distrutti. Forse per questo, mi lasciò uno di quei cavalli, nero e bello, che mi buttò anche a terra una volta o due. Verso la fine dell’anno, stavamo passando su una sponda del lago Pratignano. Faceva freddo, pioveva e nevicava. Il mio cavallo perse l’equilibrio, anche a causa del terreno fangoso, e cadde nel lago. Io feci in tempo a scendere e a mettermi in salvo, ma lui annegò. Tornai scalzo. Dovetti fare sei chilometri a piedi sulla neve.


Poi la mia formazione si fermò a Madonna dell’Acero. Lì, i soldati brasiliani giocavano a football in un campetto da calcio e chiacchieravano. A Lizzano del Belvedere lavammo la roba che avevamo addosso. I vestiti vennero tutti bolliti perché sai, erano mesi che dormivamo nelle tése5 e nelle chiese, e sempre per terra. Non avevamo mica i materassi!


Una sera di quell’inverno, il mio gruppo si stava spostando verso Sestola. Avevamo molta fame perché in quel periodo mica sempre si riusciva a trovare qualcosa da mangiare. Non c’era la strada allora, ma soltanto un argine di sassi che portava alla chiesa del luogo. Il cavallo di uno di noi urtò contro un masso che rotolò e scoprì un prosciutto bello grosso e qualche salame. Prendemmo tutto: molto probabilmente era cibo nascosto da chi abitava nelle case lì di fronte, ormai disabitate per via dei rastrellamenti. Coi panni fradici addosso, ci rifugiammo nella chiesa, anch’essa deserta, per la notte. Eravamo in poco più di una decina e uno di noi aveva un coltello, che usò per tagliare il prosciutto e i salami. Mangiammo tutto, senza pane. Avrei mangiato anche le ossa… la fame era proprio una brutta bestia.


Un’altra volta, mi ritrovai davanti a una casa, in mezzo al bosco. Lì, una signora aveva fatto delle frittelle di castagne. Avevo diciassette anni ed erano tre giorni che non mangiavo.

«Le posso assaggiare?» domandai, «sono giorni che non mangio.»

Lei rispose di sì.

Mangiai una frittella, poi un’altra e un’altra ancora… pian piano gliele mangiai tutte. Mi sentii in colpa. Ero pentito e mi dispiaceva, ma lei abitava in un bosco con diversi castagni e senz’altro aveva la farina per farne altre.


Poco dopo gli americani della 5a Armata ci raggiunsero. Indossando le loro divise, ci spostammo fino al Monte Belvedere, ancora in mano ai tedeschi. Il nostro primo combattimento assieme agli americani fu alla fine dell’ottobre del 1944: il tempo era pessimo e faceva freddo. Il primo attacco riuscì, ma non so per quale ragione gli americani ordinarono la ritirata. Dopo il combattimento, mi diedero una scatoletta di cibo. La mangiai e cominciai a sputare sangue… ero deperito a quel punto. Allora mi portarono al confine della Toscana, in un ospedale da campo americano, dove rimasi a riposo per alcuni giorni. Alcuni soldati americani entrarono nella tenda per vedere me, il partigiano comunista, perché secondo loro tutti i partigiani lo erano. Io allora non sapevo neanche che cosa volesse dire essere comunista. Secondo me rimasero delusi: ero deperito e pesavo a stento una cinquantina di chili.


Quando mi fui ripreso tornai al fronte in tempo per la conquista di Monte Belvedere. La notte prima dell’ultimo attacco fu qualcosa di particolare: i bombardamenti degli americani illuminavano a giorno le montagne e il terreno era tutto un buco. Al mattino presto attaccammo e una quindicina di soldati tedeschi si arresero. Anche loro erano magrissimi e ne avevano fin sopra i capelli della guerra.


Assieme agli americani prendemmo anche Fanano e Sestola. Da Fanano a Sestola c’era un camminamento minato. Se mettevi un piede di traverso, facevi saltare per aria tutti. Poi scendemmo fino a Pavullo, e da lì a Serramazzoni. Venendo giù da Serramazzoni vidi due tedeschi in fuga. Io ero vestito da americano e loro avevano paura di me. Puntai il fucile contro di loro e si arresero. Scesi giù per i campi e consegnai i due prigionieri ai partigiani che c’erano a Levizzano, dove abitava anche mia madre. Uno o due giorni dopo partii, a bordo di un camioncino scoperto, per andare a Modena. Durante il tragitto il camioncino si ribaltò e rimasi ferito a una mano.


Arrivò il 25 aprile 1945 e la guerra finì. A Modena, il 29 aprile 1945 sfilammo partendo dall’Accademia Militare di Modena. Le persone erano felici, ci abbracciavano e festeggiavano assieme a noi. Una signora si avvicinò mentre camminavo. Forse avrà visto quanto ero magro, perché mi diede del Vov da bere. Io, il Vov, non sapevo neanche cosa fosse. Ci rendemmo conto, però, che nel liquido galleggiava una cavalletta morta. La signora, poverina, se ne accorse e ci rimase male. Allora io presi la cavalletta, la buttai via e infine bevvi il liquore. Lei, battendo le mani, mi disse: «Hai un bel coraggio!»

Di paura, in quel periodo, non ne avevo mica tanta: allora non si dava il giusto valore alla vita. Vivere o morire era uguale. Quando si è cominciato a stare bene, si è cominciato a dare il giusto valore alla vita.


Dopo sono stato nella polizia partigiana: alle donnette rasavamo la testa e i fascisti che avevano fatto delle cose mica belle li mettevamo in cella. Io facevo la guardia. Un giorno, dopo un po’ di tempo, gli americani ci condussero nel cortile della questura. Saremo stati una ventina di ex-partigiani.

«Mettete giù le armi e andatevene» ci dissero.

Io ero giovane, avevo sì e no diciotto anni, e allora tornai a casa.


Ne ho subite di tutti i colori. Ho visto dei miei compagni morire e stare male. Solo ricordarlo mi fa venire da piangere. Di fare la guerra non bisognerebbe nemmeno parlarne. Che vadano a farla le persone che la ordinano. Che si ammazzino tra di loro finché vogliono. Oggi, l’importante è mantenere la pace. La vita deve essere fatta di pace e non di guerre e distruzioni, per l’amor del cielo. C’è possibilità di vita per tutti. È vero o no?

  1. Le prime notizie della produzione di esplosivi in quell’area sono dell’anno 1763, anche se fonti non verificate fanno risalire un primo impianto al XVI secolo. I lavori, tuttavia, andavano di pari passo con le necessità: a brevi e intensi periodi di lavorazione si alternavano lunghi periodi di chiusura. Le campagne napoleoniche, la Grande Guerra e il secondo conflitto mondiale costituiscono picchi sia per quanto concerne l’occupazione della forza lavoro, sia per l’ampliamento degli impianti. D. DEGLI ESPOSTI, Lottare per scegliere – antifascismo, Resistenza e ricostruzione a Spilamberto, Edizioni Artestampa, Modena 2018, p. 31.

  2. Il 25 luglio 1943, con il crollo del regime fascista, a Spilamberto si aprì una giornata di manifestazioni gioiose. Nella notte vennero rimossi a scalpellate i simboli e gli emblemi del fascismo. Il 26 luglio venne organizzato uno sciopero alla SIPE che si sarebbe dovuto concludere con un comizio. Intanto, nelle vie di Spilamberto si diffondevano volantini che spronavano il popolo a chiedere la pace e un nuovo e più giusto ordine sociale. Dinanzi a queste mobilizzazioni, i militari erano decisi a mantenere il controllo a tutti i costi. Il 28 luglio 1943, gli operai della SIPE, sotto il controllo di un plotone dell’esercito che presidiava la zona antistante gli stabili, varcarono i cancelli e cominciarono a scioperare. Mentre i militari si servivano di bombe a mano per impedire ad altri di confluire nel corteo, arrivò l’ordine di aprire il fuoco sui manifestanti. Fortunatamente i soldati non eseguirono gli ordini e nessuno morì. La folla, per paura di ciò che sarebbe potuto succedere [e che sarebbe successo, in circostanze spaventosamente simili, alle Fonderie Riunite di Modena, il 9 gennaio 1950, con un bilancio di sei morti e oltre duecento feriti, N.d.A.] si disperse. Dunque, a causa del mancato arrivo del corteo in paese, il comizio non ebbe luogo. Nei giorni seguenti vennero arrestati e imprigionati alle carceri di Sant’Eufemia i manifestanti Edoardo Graziosi, Armando Marchesini, Ivo Cavedoni, Luigi Roncaglia, Bruna Casini, Renato Manzini e Gilberto Galli. DEGLI ESPOSTI, Lottare per scegliere – antifascismo, Resistenza e ricostruzione a Spilamberto, Edizioni Artestampa, Modena 2018, pp. 35-39.

  3. Non possiamo averne la certezza assoluta, ma tempo e luogo combaciano. Accanto al poligono di tiro di Reggio Emilia, dove i sette fratelli Cervi vennero fucilati dopo lunghe torture il 28 dicembre 1943, passano i binari della linea ferroviaria. P. NICOLAI, I fratelli Cervi – A trent’anni dalla fucilazione una ricostruzione fotografica della loro vita e della loro morte – uno scritto di Emilio Sereni su resistenza contadina e democrazia in Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.

  4. Armando, nome di battaglia di Mario Ricci, svolse attività politica clandestina in Francia per il partito comunista francese e partecipò alla guerra civile in Spagna, dove conobbe personaggi del calibro di Togliatti, Nenni, Longo, Pesce, Dolores Ibárruri e Di Vittorio. Divenne una figura di spicco della Resistenza in Italia comandando la divisione “Modena-Montagna” e il Corpo d’armata centro Emilia. Alla caduta della Repubblica di Montefiorino, lui e la sua divisione si unirono alla 5ª Armata alleata. Per le sue gesta venne insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare, il massimo riconoscimento militare italiano. A. VACCARI, Armando – una vita per la libertà, Edizioni Il Fiorino, Modena 1998, pp. 14 in avanti.

  5. «Fienile» in dialetto modenese.

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