Festeggiammo con lo spumante

Testimonianza di Monti Bruno, classe 1925

Sono nato il 25 gennaio 1925 a Soliera, ma venne una grossa nevicata e i miei genitori Ino e Maria poterono registrarmi all’anagrafe soltanto due giorni dopo. Erano di idee socialiste, ma erano anche cattolici. Dopo aver frequentato il catechismo a Soliera, cominciai ad aiutare il cappellano. Un giorno feci caso al fatto che le suore portavano sempre il cappuccio. Io ero abituato a vedere sempre i capelli mori di mia madre, lunghi e belli. Così, presi coraggio e tolsi il cappuccio a una di loro. Questa si rivoltò e mi diede uno scappellotto che mi fece volare a terra.


Sono cresciuto in una famiglia numerosa. Avevo una sorella di nome Nina e sette fratelli: Arturo, Amleto, Ivo, Dino, Franco, Carlo e Nunzio. Non appena ebbi una dozzina d’anni cominciai a lavorare da un amico di famiglia, Romulein, che aveva il mulino e faceva il fornaio. Lo aiutavo a macinare il frumento e a fare il pane. Quando divenni più grandicello, verso i quindici anni, cominciai a fare il garzone dal casaro.


Nel 1943 lavoravo al caseificio e, quando c’era bisogno, andavo a dare una mano anche alla scuderia di Fausto Branchini. Lui aveva dei cavalli da corsa e da trotto. Erano tutti molto promettenti. Più tardi, questi cavalli, vennero spostati a Modena, dove rimasero uccisi dai bombardamenti degli americani1.


L’8 settembre di quell’anno me lo ricordo bene. La notizia dell’Armistizio di Cassibile era già nell’aria e quando arrivò la conferma, io ero in compagnia di Fausto e di suo fratello Umberto, Umbertein, che possedeva un’importante scuderia di boxe2. Pensammo che la guerra fosse finita e festeggiammo con lo spumante.


C’eravamo sbagliati, la guerra proseguì e poco dopo venni chiamato a militare. Entrai nei Bersaglieri di Reggio Emilia e venni assegnato al Genio Pontieri. Ci occupavamo di aggiustare le ferrovie distrutte dai bombardamenti degli americani. Un giorno mi ribellai.

«Io non ci torno più!» dissi.

Tornai a casa a cavallo.

Un certo Zabei, che anche se era fascista era una persona per bene, conosceva la mia famiglia. Andò da mia madre e le disse: «Maria, so che Bruno non si è presentato a militare. Digli che ho un posto per lui. Invece di andare a fare il soldato, può lavorare in polveriera. Ho un’amicizia.»


Così andai a lavorare alla polveriera di Soliera. Lì, facevano bussolotti e bombe a mano. In quel periodo, portavo fuori del materiale esplosivo nascondendolo dentro il fanale della mia bicicletta. Ero già in contatto con i partigiani e assistetti anche all’attacco3: la notte del 24 ottobre 1944 era stato organizzato un colpo per rubare del materiale. Tuttavia qualcuno fece la spia e fu necessario scappare. Ci furono dei morti tra i nazifascisti. Il giorno dopo, il 25 ottobre, nazisti e militanti delle Brigate Nere reagirono all’attacco catturando Triestino Franciosi e Ivo Vecchi, che aveva partecipato all’attacco della notte, che poi impiccarono davanti allo sguardo inorridito dei famigliari4.


Davanti al forno di Romulein, il reggente fascista fece uccidere dei partigiani. Tempo dopo, quando i partigiani catturarono il fascista, lo fucilarono proprio lì5.

Romulein, passando davanti al corpo del fascista, disse:

«Tu adesso rimani lì!»


Un giorno d’inverno, i tedeschi e i fascisti fecero un grosso rastrellamento a Limidi di Soliera. Io e Demos, un altro ragazzo, riuscimmo a nasconderci in un canale, sotto a un ponte. Era inverno e l’acqua era così gelida che pareva fatta di aghi. Rimanemmo lì per un bel po’ di tempo, fino a quando una staffetta partigiana che si faceva chiamare Ebe non ci vide. Ci disse che i tedeschi e i fascisti si erano già spostati verso Sozzigalli e noi potemmo tornare a casa. Dopo una breve sosta, ci spostammo a Rubiera. Da lì partimmo per la montagna. Viaggiavamo a piedi ed esclusivamente di notte, perché di giorno era pericoloso e si poteva incappare nei repubblichini e nei tedeschi. Soltanto quando fummo in montagna, fu possibile camminare anche sotto la luce del sole. Facemmo due soste prima di arrivare a Montefiorino.


Mi sono dato alla macchia e sono andato con i partigiani, ma non ho mai sparato un colpo. Siccome sapevo fare il pane, misero me e un altro compagno a fare da mangiare. Ricordo la Pasqua del 1944: volevamo festeggiare tutti assieme e avevamo messo nel pentolone sul fuoco la carne che avremmo mangiato a pranzo. Tuttavia, i tedeschi e i fascisti cominciarono a fare i rastrellamenti, e le forze dei GAP e dei SAP dovettero andare a respingerli. Noi, invece, nella cucina improvvisata, infilammo la carne dentro a un sacco: in quel modo, se avessimo dovuto ripiegare, l’avremmo salvata.


Nel marzo del 1945 conobbi Gianni, una staffetta partigiana che aiutava i ragazzi a passare la linea del fronte. Ci accordammo. Da lì, in uno scaglione di dieci alla volta, attraversammo gli Appennini. Da mangiare c’era poco o nulla: le patate che avevamo, le mangiavamo con la pelle, cotte o bollite nell’acqua, per riempire la pancia. Allora ero giovane e avevo lo stomaco che era sempre vuoto. Poi andavamo a casa dei montanari a chiedere delle castagne secche da cuocere. Quelle sì che riempivano la pancia… almeno per un po’.


Approdammo a Fornaci di Barga, in provincia di Lucca. Restammo per un po’ in quella che tempo prima era una caserma dei carabinieri. Lì vicino c’erano due cannoni americani che facevano fuoco sul fronte. Quando sparavano tremava tutto. Eppure, noi riuscimmo sempre a dormire: avevamo camminato per varie notti per la montagna ed eravamo stanchi e affamati. E così, in qualche modo, attraversammo il fronte e arrivammo in Toscana. Ci fermammo alla base americana di Tombolo, poco distante da Livorno. In quelle ore, appresi in seguito, i fascisti e i tedeschi compivano pesanti rastrellamenti a Soliera nel tentativo di punire le azioni partigiane. Fecero un rastrellamento a Limidi di Soliera, dove presero dei partigiani che poi uccisero al caseificio Omomorto, dove ora c’è il cippo6.


Alla fine dell’aprile 1945, quando sentii che Modena era sicura, mandai a casa mio fratello Dino, che era più piccolo di me di diciotto mesi. Io e il mio amico Giuliano restammo qualche altro tempo con gli americani. Andavamo al porto a prendere i fusti di benzina per gli apparecchi e così via. A giugno, il contingente per cui lavoravamo doveva essere trasferito dove la guerra non era ancora finita. Io e Giuliano ci offrimmo di seguirli, volevamo andare con loro.

«Non vi vogliamo» ci dissero.

Così, nella seconda metà di giugno, tornai a casa.


L’anno dopo, nell’estate del 1946, mi chiamarono per andare a militare. Dovevamo sostituire quelli come uno dei miei fratelli, rimasto prigioniero in bass’Italia. Era agosto e io avevo i calzoni corti e i sandali. Al centro di reclutamento del distretto di Modena, un capitano riconobbe il mio accento. Scoprii che aveva fatto il bersagliere a Reggio Emilia. Lui aveva combattuto in Russia, dove era stato ferito. Infatti aveva delle cicatrici in un braccio. Grazie a lui e alla sua bontà, quei mesi furono bellissimi. Eravamo stanziati a Napoli. Venni assegnato al magazzino, in qualità di responsabile alla cucina. Facevamo la spesa anche per le altre compagnie e quando andavo all’autocentro a prendere e prenotare i camion per caricare la roba, tutti volevano accompagnarmi: rubavamo sempre qualcosa per poi andare a mangiare nelle trattorie… in vita mia sono stato fortunato. E adesso sono qui, a novantacinque anni, in una casa costruita dove in tempo di guerra cadde una bomba che ricoprì di terra mio padre. Di tutti i miei fratelli sono rimasto il solo.

Sono nato il 25 gennaio 1925 a Soliera, ma venne una grossa nevicata e i miei genitori Ino e Maria poterono registrarmi all’anagrafe soltanto due giorni dopo. Erano di idee socialiste, ma erano anche cattolici. Dopo aver frequentato il catechismo a Soliera, cominciai ad aiutare il cappellano. Un giorno feci caso al fatto che le suore portavano sempre il cappuccio. Io ero abituato a vedere sempre i capelli mori di mia madre, lunghi e belli. Così, presi coraggio e tolsi il cappuccio a una di loro. Questa si rivoltò e mi diede uno scappellotto che mi fece volare a terra.


Sono cresciuto in una famiglia numerosa. Avevo una sorella di nome Nina e sette fratelli: Arturo, Amleto, Ivo, Dino, Franco, Carlo e Nunzio. Non appena ebbi una dozzina d’anni cominciai a lavorare da un amico di famiglia, Romulein, che aveva il mulino e faceva il fornaio. Lo aiutavo a macinare il frumento e a fare il pane. Quando divenni più grandicello, verso i quindici anni, cominciai a fare il garzone dal casaro.


Nel 1943 lavoravo al caseificio e, quando c’era bisogno, andavo a dare una mano anche alla scuderia di Fausto Branchini. Lui aveva dei cavalli da corsa e da trotto. Erano tutti molto promettenti. Più tardi, questi cavalli, vennero spostati a Modena, dove rimasero uccisi dai bombardamenti degli americani1.


L’8 settembre di quell’anno me lo ricordo bene. La notizia dell’Armistizio di Cassibile era già nell’aria e quando arrivò la conferma, io ero in compagnia di Fausto e di suo fratello Umberto, Umbertein, che possedeva un’importante scuderia di boxe2. Pensammo che la guerra fosse finita e festeggiammo con lo spumante.


C’eravamo sbagliati, la guerra proseguì e poco dopo venni chiamato a militare. Entrai nei Bersaglieri di Reggio Emilia e venni assegnato al Genio Pontieri. Ci occupavamo di aggiustare le ferrovie distrutte dai bombardamenti degli americani. Un giorno mi ribellai.

«Io non ci torno più!» dissi.

Tornai a casa a cavallo.

Un certo Zabei, che anche se era fascista era una persona per bene, conosceva la mia famiglia. Andò da mia madre e le disse: «Maria, so che Bruno non si è presentato a militare. Digli che ho un posto per lui. Invece di andare a fare il soldato, può lavorare in polveriera. Ho un’amicizia.»


Così andai a lavorare alla polveriera di Soliera. Lì, facevano bussolotti e bombe a mano. In quel periodo, portavo fuori del materiale esplosivo nascondendolo dentro il fanale della mia bicicletta. Ero già in contatto con i partigiani e assistetti anche all’attacco3: la notte del 24 ottobre 1944 era stato organizzato un colpo per rubare del materiale. Tuttavia qualcuno fece la spia e fu necessario scappare. Ci furono dei morti tra i nazifascisti. Il giorno dopo, il 25 ottobre, nazisti e militanti delle Brigate Nere reagirono all’attacco catturando Triestino Franciosi e Ivo Vecchi, che aveva partecipato all’attacco della notte, che poi impiccarono davanti allo sguardo inorridito dei famigliari4.


Davanti al forno di Romulein, il reggente fascista fece uccidere dei partigiani. Tempo dopo, quando i partigiani catturarono il fascista, lo fucilarono proprio lì5.

Romulein, passando davanti al corpo del fascista, disse:

«Tu adesso rimani lì!»


Un giorno d’inverno, i tedeschi e i fascisti fecero un grosso rastrellamento a Limidi di Soliera. Io e Demos, un altro ragazzo, riuscimmo a nasconderci in un canale, sotto a un ponte. Era inverno e l’acqua era così gelida che pareva fatta di aghi. Rimanemmo lì per un bel po’ di tempo, fino a quando una staffetta partigiana che si faceva chiamare Ebe non ci vide. Ci disse che i tedeschi e i fascisti si erano già spostati verso Sozzigalli e noi potemmo tornare a casa. Dopo una breve sosta, ci spostammo a Rubiera. Da lì partimmo per la montagna. Viaggiavamo a piedi ed esclusivamente di notte, perché di giorno era pericoloso e si poteva incappare nei repubblichini e nei tedeschi. Soltanto quando fummo in montagna, fu possibile camminare anche sotto la luce del sole. Facemmo due soste prima di arrivare a Montefiorino.


Mi sono dato alla macchia e sono andato con i partigiani, ma non ho mai sparato un colpo. Siccome sapevo fare il pane, misero me e un altro compagno a fare da mangiare. Ricordo la Pasqua del 1944: volevamo festeggiare tutti assieme e avevamo messo nel pentolone sul fuoco la carne che avremmo mangiato a pranzo. Tuttavia, i tedeschi e i fascisti cominciarono a fare i rastrellamenti, e le forze dei GAP e dei SAP dovettero andare a respingerli. Noi, invece, nella cucina improvvisata, infilammo la carne dentro a un sacco: in quel modo, se avessimo dovuto ripiegare, l’avremmo salvata.


Nel marzo del 1945 conobbi Gianni, una staffetta partigiana che aiutava i ragazzi a passare la linea del fronte. Ci accordammo. Da lì, in uno scaglione di dieci alla volta, attraversammo gli Appennini. Da mangiare c’era poco o nulla: le patate che avevamo, le mangiavamo con la pelle, cotte o bollite nell’acqua, per riempire la pancia. Allora ero giovane e avevo lo stomaco che era sempre vuoto. Poi andavamo a casa dei montanari a chiedere delle castagne secche da cuocere. Quelle sì che riempivano la pancia… almeno per un po’.


Approdammo a Fornaci di Barga, in provincia di Lucca. Restammo per un po’ in quella che tempo prima era una caserma dei carabinieri. Lì vicino c’erano due cannoni americani che facevano fuoco sul fronte. Quando sparavano tremava tutto. Eppure, noi riuscimmo sempre a dormire: avevamo camminato per varie notti per la montagna ed eravamo stanchi e affamati. E così, in qualche modo, attraversammo il fronte e arrivammo in Toscana. Ci fermammo alla base americana di Tombolo, poco distante da Livorno. In quelle ore, appresi in seguito, i fascisti e i tedeschi compivano pesanti rastrellamenti a Soliera nel tentativo di punire le azioni partigiane. Fecero un rastrellamento a Limidi di Soliera, dove presero dei partigiani che poi uccisero al caseificio Omomorto, dove ora c’è il cippo6.


Alla fine dell’aprile 1945, quando sentii che Modena era sicura, mandai a casa mio fratello Dino, che era più piccolo di me di diciotto mesi. Io e il mio amico Giuliano restammo qualche altro tempo con gli americani. Andavamo al porto a prendere i fusti di benzina per gli apparecchi e così via. A giugno, il contingente per cui lavoravamo doveva essere trasferito dove la guerra non era ancora finita. Io e Giuliano ci offrimmo di seguirli, volevamo andare con loro.

«Non vi vogliamo» ci dissero.

Così, nella seconda metà di giugno, tornai a casa.


L’anno dopo, nell’estate del 1946, mi chiamarono per andare a militare. Dovevamo sostituire quelli come uno dei miei fratelli, rimasto prigioniero in bass’Italia. Era agosto e io avevo i calzoni corti e i sandali. Al centro di reclutamento del distretto di Modena, un capitano riconobbe il mio accento. Scoprii che aveva fatto il bersagliere a Reggio Emilia. Lui aveva combattuto in Russia, dove era stato ferito. Infatti aveva delle cicatrici in un braccio. Grazie a lui e alla sua bontà, quei mesi furono bellissimi. Eravamo stanziati a Napoli. Venni assegnato al magazzino, in qualità di responsabile alla cucina. Facevamo la spesa anche per le altre compagnie e quando andavo all’autocentro a prendere e prenotare i camion per caricare la roba, tutti volevano accompagnarmi: rubavamo sempre qualcosa per poi andare a mangiare nelle trattorie… in vita mia sono stato fortunato. E adesso sono qui, a novantacinque anni, in una casa costruita dove in tempo di guerra cadde una bomba che ricoprì di terra mio padre. Di tutti i miei fratelli sono rimasto il solo.

Sono nato il 25 gennaio 1925 a Soliera, ma venne una grossa nevicata e i miei genitori Ino e Maria poterono registrarmi all’anagrafe soltanto due giorni dopo. Erano di idee socialiste, ma erano anche cattolici. Dopo aver frequentato il catechismo a Soliera, cominciai ad aiutare il cappellano. Un giorno feci caso al fatto che le suore portavano sempre il cappuccio. Io ero abituato a vedere sempre i capelli mori di mia madre, lunghi e belli. Così, presi coraggio e tolsi il cappuccio a una di loro. Questa si rivoltò e mi diede uno scappellotto che mi fece volare a terra.


Sono cresciuto in una famiglia numerosa. Avevo una sorella di nome Nina e sette fratelli: Arturo, Amleto, Ivo, Dino, Franco, Carlo e Nunzio. Non appena ebbi una dozzina d’anni cominciai a lavorare da un amico di famiglia, Romulein, che aveva il mulino e faceva il fornaio. Lo aiutavo a macinare il frumento e a fare il pane. Quando divenni più grandicello, verso i quindici anni, cominciai a fare il garzone dal casaro.


Nel 1943 lavoravo al caseificio e, quando c’era bisogno, andavo a dare una mano anche alla scuderia di Fausto Branchini. Lui aveva dei cavalli da corsa e da trotto. Erano tutti molto promettenti. Più tardi, questi cavalli, vennero spostati a Modena, dove rimasero uccisi dai bombardamenti degli americani1.


L’8 settembre di quell’anno me lo ricordo bene. La notizia dell’Armistizio di Cassibile era già nell’aria e quando arrivò la conferma, io ero in compagnia di Fausto e di suo fratello Umberto, Umbertein, che possedeva un’importante scuderia di boxe2. Pensammo che la guerra fosse finita e festeggiammo con lo spumante.


C’eravamo sbagliati, la guerra proseguì e poco dopo venni chiamato a militare. Entrai nei Bersaglieri di Reggio Emilia e venni assegnato al Genio Pontieri. Ci occupavamo di aggiustare le ferrovie distrutte dai bombardamenti degli americani. Un giorno mi ribellai.

«Io non ci torno più!» dissi.

Tornai a casa a cavallo.

Un certo Zabei, che anche se era fascista era una persona per bene, conosceva la mia famiglia. Andò da mia madre e le disse: «Maria, so che Bruno non si è presentato a militare. Digli che ho un posto per lui. Invece di andare a fare il soldato, può lavorare in polveriera. Ho un’amicizia.»


Così andai a lavorare alla polveriera di Soliera. Lì, facevano bussolotti e bombe a mano. In quel periodo, portavo fuori del materiale esplosivo nascondendolo dentro il fanale della mia bicicletta. Ero già in contatto con i partigiani e assistetti anche all’attacco3: la notte del 24 ottobre 1944 era stato organizzato un colpo per rubare del materiale. Tuttavia qualcuno fece la spia e fu necessario scappare. Ci furono dei morti tra i nazifascisti. Il giorno dopo, il 25 ottobre, nazisti e militanti delle Brigate Nere reagirono all’attacco catturando Triestino Franciosi e Ivo Vecchi, che aveva partecipato all’attacco della notte, che poi impiccarono davanti allo sguardo inorridito dei famigliari4.


Davanti al forno di Romulein, il reggente fascista fece uccidere dei partigiani. Tempo dopo, quando i partigiani catturarono il fascista, lo fucilarono proprio lì5.

Romulein, passando davanti al corpo del fascista, disse:

«Tu adesso rimani lì!»


Un giorno d’inverno, i tedeschi e i fascisti fecero un grosso rastrellamento a Limidi di Soliera. Io e Demos, un altro ragazzo, riuscimmo a nasconderci in un canale, sotto a un ponte. Era inverno e l’acqua era così gelida che pareva fatta di aghi. Rimanemmo lì per un bel po’ di tempo, fino a quando una staffetta partigiana che si faceva chiamare Ebe non ci vide. Ci disse che i tedeschi e i fascisti si erano già spostati verso Sozzigalli e noi potemmo tornare a casa. Dopo una breve sosta, ci spostammo a Rubiera. Da lì partimmo per la montagna. Viaggiavamo a piedi ed esclusivamente di notte, perché di giorno era pericoloso e si poteva incappare nei repubblichini e nei tedeschi. Soltanto quando fummo in montagna, fu possibile camminare anche sotto la luce del sole. Facemmo due soste prima di arrivare a Montefiorino.


Mi sono dato alla macchia e sono andato con i partigiani, ma non ho mai sparato un colpo. Siccome sapevo fare il pane, misero me e un altro compagno a fare da mangiare. Ricordo la Pasqua del 1944: volevamo festeggiare tutti assieme e avevamo messo nel pentolone sul fuoco la carne che avremmo mangiato a pranzo. Tuttavia, i tedeschi e i fascisti cominciarono a fare i rastrellamenti, e le forze dei GAP e dei SAP dovettero andare a respingerli. Noi, invece, nella cucina improvvisata, infilammo la carne dentro a un sacco: in quel modo, se avessimo dovuto ripiegare, l’avremmo salvata.


Nel marzo del 1945 conobbi Gianni, una staffetta partigiana che aiutava i ragazzi a passare la linea del fronte. Ci accordammo. Da lì, in uno scaglione di dieci alla volta, attraversammo gli Appennini. Da mangiare c’era poco o nulla: le patate che avevamo, le mangiavamo con la pelle, cotte o bollite nell’acqua, per riempire la pancia. Allora ero giovane e avevo lo stomaco che era sempre vuoto. Poi andavamo a casa dei montanari a chiedere delle castagne secche da cuocere. Quelle sì che riempivano la pancia… almeno per un po’.


Approdammo a Fornaci di Barga, in provincia di Lucca. Restammo per un po’ in quella che tempo prima era una caserma dei carabinieri. Lì vicino c’erano due cannoni americani che facevano fuoco sul fronte. Quando sparavano tremava tutto. Eppure, noi riuscimmo sempre a dormire: avevamo camminato per varie notti per la montagna ed eravamo stanchi e affamati. E così, in qualche modo, attraversammo il fronte e arrivammo in Toscana. Ci fermammo alla base americana di Tombolo, poco distante da Livorno. In quelle ore, appresi in seguito, i fascisti e i tedeschi compivano pesanti rastrellamenti a Soliera nel tentativo di punire le azioni partigiane. Fecero un rastrellamento a Limidi di Soliera, dove presero dei partigiani che poi uccisero al caseificio Omomorto, dove ora c’è il cippo6.


Alla fine dell’aprile 1945, quando sentii che Modena era sicura, mandai a casa mio fratello Dino, che era più piccolo di me di diciotto mesi. Io e il mio amico Giuliano restammo qualche altro tempo con gli americani. Andavamo al porto a prendere i fusti di benzina per gli apparecchi e così via. A giugno, il contingente per cui lavoravamo doveva essere trasferito dove la guerra non era ancora finita. Io e Giuliano ci offrimmo di seguirli, volevamo andare con loro.

«Non vi vogliamo» ci dissero.

Così, nella seconda metà di giugno, tornai a casa.


L’anno dopo, nell’estate del 1946, mi chiamarono per andare a militare. Dovevamo sostituire quelli come uno dei miei fratelli, rimasto prigioniero in bass’Italia. Era agosto e io avevo i calzoni corti e i sandali. Al centro di reclutamento del distretto di Modena, un capitano riconobbe il mio accento. Scoprii che aveva fatto il bersagliere a Reggio Emilia. Lui aveva combattuto in Russia, dove era stato ferito. Infatti aveva delle cicatrici in un braccio. Grazie a lui e alla sua bontà, quei mesi furono bellissimi. Eravamo stanziati a Napoli. Venni assegnato al magazzino, in qualità di responsabile alla cucina. Facevamo la spesa anche per le altre compagnie e quando andavo all’autocentro a prendere e prenotare i camion per caricare la roba, tutti volevano accompagnarmi: rubavamo sempre qualcosa per poi andare a mangiare nelle trattorie… in vita mia sono stato fortunato. E adesso sono qui, a novantacinque anni, in una casa costruita dove in tempo di guerra cadde una bomba che ricoprì di terra mio padre. Di tutti i miei fratelli sono rimasto il solo.

  1. Il bombardamento di cui si parla è quello del 22 giugno 1944. Quel giorno, alle ore 12,20, un gruppo di almeno venticinque bombardieri americani colpì la zona a nord della ferrovia, la Manifattura Tabacchi, via Ganaceto con Palazzo Campori, le tribune dello stadio Marzari, quelle dell’ippodromo e le vicine scuderie Branchini, dove morirono undici cavalli da corsa. Il bombardamento colpì anche il quartiere Sacca: le Fonderie Corni, la fabbrica di concimi della Montecatini, l’officina Baschieri, lo stabilimento vinicolo Chiarli e altre aziende minori. L’incursione durò soltanto otto minuti e provocò quattro morti civili: Ugo Cappi, Giuseppe Gibertini, Stefano La Grassa e Stella De Bonis. R.G. ROLANDO, Modena in guerra – Allarme bombardieri, Il Resto del Carlino, Bologna 1994, pp. 63-65; “Giorni di bombardamenti e di plotoni d’esecuzione”, «Gazzetta di Modena», consultato il 16 aprile 2024, https://gazzettadimodena.gelocal.it/tempo-libero/2017/11/30/news/giorni-di-bombardamenti-e-di-plotoni-d-esecuzione-1.16183723.

  2. Umberto Branchini (1914-1997) fu un importante manager nella boxe professionale degli anni Sessanta e Settanta. Con ben 10 campioni del mondo e 43 campioni europei, nel 2004 è entrato a far parte della International Boxing Hall of Fame. Sito della International Boxing Hall of Fame, consultato il 15 aprile 2024. <http://www.ibhof.com/pages/about/inductees/nonparticipant/branchini.html>

  3. Il 24 ottobre 1944, la polveriera di Soliera venne presa d’assalto dai partigiani della 65° Brigata d’Assalto Garibaldi “W. Tabacchi” in un attacco che prevedeva l’uso di mitragliatrici pesanti, fucili mitragliatori e l’aiuto di elementi militarizzati di servizio nel deposito stesso. L’uccisione di un soldato tedesco di guardia, da parte di due collaboratori, non andò secondo i piani e venne a meno l’effetto sorpresa, così come il coordinamento tra l’azione all’interno degli stabili e quella all’esterno. Nonostante ciò, i partigiani ultimarono l’assedio e ripiegarono soltanto dopo un acceso combattimento che, si ritiene, abbia lasciato a terra altri due tedeschi. M. PACADOR, L. CASALI, Lotte sociali e guerriglia in pianura, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 194, 326-328.

  4. Per rappresaglia, il 25 ottobre 1944 i tedeschi catturarono i partigiani Ivo Vecchi, della Brigata “W. Tabacchi”, Divisione Modena Pianura, nome di battaglia “Nano”, che aveva partecipato all’organizzazione dell’attacco, e Triestino Franciosi, della brigata “Zoello Monari”, Divisione Modena Pianura, nome di battaglia “Scuro”. I due vennero impiccati all’ingresso dell’abitazione della famiglia Vecchi, in via Serrasina, nei pressi del fiume Secchia e del Passo dell’Uccellino. I. VACCARI, Dalla parte della libertà: i caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della provincia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese (Coop Estense, 1999), pp. 508 e seguenti.

  5. Purtroppo non è stato possibile risalire all’episodio preciso.

  6. Il cippo eretto nei pressi del caseificio “Omomorto”, sulla strada provinciale Soliera-Cavezzo, ricorda i partigiani vittime del terribile rastrellamento perpetrato dai soldati tedeschi e dai repubblichini nel marzo del 1945, facilitato dalle delazioni di una spia. Ricorda i partigiani Sindo Vellani, Carlo Alberto Ronchetti, Eros Veronesi, Adelmo Fantuzzi, Gino Bertani, Romolo Dugoni, Bruno Bonetti e Ornello Pederzoli. Pederzoli, nato il 22 gennaio 1925, partigiano della Brigata “Ivano”, divisione Modena Pianura, nome di battaglia “Carbone”, è stato insignito della Medaglia d’Oro alla Memoria con la seguente motivazione: “Giovanissimo, eroico combattente, partecipava alla lotta di liberazione con pura fede, mettendo in luce alte doti di altruismo e di sacrificio. Nel corso di un duro rastrellamento nemico, facilitato dalle delazioni di una spia, otteneva di poter ricercare e punire esemplarmente il traditore, pur sapendo che costui trovavasi con un forte reparto avversario. Individuati gli avversari e la spia apriva arditamente il fuoco, senza curarsi della enorme disparità di forze. Circondato a sua volta fatto segno a violenta reazione nemica, seguitava imperterrito a sparare, provocando sensibili perdite nelle file avversarie. Rimasto con una sola cartuccia, anziché tentare la fuga, preferiva rivolgere l’arma contro sé stesso sacrificando in tal modo stoicamente la sua giovane esistenza alla causa della libertà.” I. VACCARI, Dalla parte della libertà: i caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della provincia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese, Coop Estense, Santa Sofia di R. 1999, pp. 382-383.

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