
Tutti per uno e uno per tutti
Testimonianza di Simonini Lorenzo, classe 1927
Quando ero piccolo c’era una miseria che faceva scintille. Per fortuna abitavo in una zona in cui le persone erano gentili e se qualcuno aveva bisogno lo si aiutava. Eravamo tutti per uno e uno per tutti. Sono nato a Riccò di Serramazzoni. La mia casa era poco prima di Pazzano e per andare a scuola dovevo fare cinque chilometri a piedi ogni giorno. Ci impiegavo più di un’ora. Io partivo, dall’ultima casa del paese, e passando davanti alle altre casa il gruppo diventava sempre più numeroso. Arrivavamo a scuola che eravamo una trentina. Al ritorno succedeva il contrario.
C’era miseria, ma eravamo felici. Quando ne avevo la possibilità, andavo ad aiutare le altre famiglie, che in cambio di un po’ di lavoro mi davano qualcosa da mangiare. Nel nostro cortile abitavano i Franchini. La loro era una famiglia grande e benestante, ma non avevano ragazzi. Mi chiamavano per badare le mucche e andare in campagna a mettere giù i legacci per il grano poiché, anche se ero piuttosto minuto, ero sveglio e in gamba.
Il nostro parroco Don Achille Vecchiati e mio padre Guido erano nati il medesimo giorno. Erano cresciuti assieme ed erano grandi amici. Allora, quando mio padre morì, Don Achille disse a mia madre: «Se hai un figlio a cui piace studiare, lo mandiamo in collegio». Accettai la proposta perché all’epoca ero garzone a Torre Maina, e lavorare in campagna era molto faticoso. Partii così per l’Osservanza, sulle colline sopra Bologna, dove rimasi per tre anni e mezzo. Quando la guerra arrivò, Bologna era sempre bersaglio dei bombardamenti e restare era pericoloso. Dovetti andarmene. A Villa Verucchio, in provincia di Rimini, cominciai a servire la messa. Quando tornai a casa, mi accorsi che alcune delle bambine con cui ero andato a scuola erano diventate delle belle ragazzine. Un giorno, fuori dalla chiesa, ero in loro compagnia. Il prete, vedendomi, si arrabbiò.
«Cosa ci fai lì in mezzo! Adesso te le do io!» mi disse.
Dopo quell’episodio smisi di andare a servire la messa, il che mi fa sorridere ancora oggi.
La mia famiglia era molto numerosa. In tutto eravamo in dieci tra fratelli. Due di loro morirono quando erano ancora molto piccoli. In quattro andarono via: i maschi come garzoni a casa di alcuni contadini, le femmine a lavorare a casa di alcuni signori, chi a Modena e chi a Bologna. Alla morte di mio padre avevamo abbandonato la terra in cui avevamo sempre vissuto poiché non potevamo più fare i contadini. Eravamo andati ad abitare assieme a Maria, mia sorella maggiore, che era già sposata e aveva sei figli. Il padrone aveva saputo della morte di mio padre e le aveva detto che potevamo stare da lei. Abitavamo in un ambiente che era sei metri per quattro. In un angolo della stanza c’era il camino. Poi c’era una panarina con sopra il tuler1 che usavamo anche come tavolo da pranzo, un vecchio cantaràn2 e un letto matrimoniale che aveva il materasso fatto da foglie di granoturco. In quell’ambiente abitavamo in sei, e a letto dormivamo tre dalla testa e tre dai piedi. La legna che adoperavamo per scaldarci la andavamo a prendere direttamente dal bosco. La vita allora era semplice e la porta della nostra casa era sempre aperta: la marlàtta3 che avevamo era frusta e non chiudeva bene. Una sera, ricordo, il letto cominciò a tremare e ci svegliammo pensando che ci fosse il terremoto. Non appena ci guardammo attorno notammo che eravamo circondati dalle pecore di una delle famiglie che abitavano lì vicino. Erano riuscite a entrare.
Dopo la notizia dell’Armistizio di Cassibile si pensava che la guerra fosse finita e molti soldati tornarono a casa. Un giorno vidi un campo a cui bisognava togliere l’erba. Al mattino successivo, dell’erba non c’era più nessuna traccia. Una cosa simile successe un’altra volta: notai un campo di grano pronto per essere lavorato e il giorno dopo il grano era stato tagliato. Capii cosa succedeva: gli uomini che erano tornati a casa dalla guerra, di giorno restavano nascosti nei rifugi che avevano costruito e di notte uscivano a dare una mano alle famiglie che abitavano nelle nostre zone. Perché, per colpa della guerra, a casa erano rimasti soltanto donne, bambini e persone anziane. Fu così che mi accorsi dell’esistenza di quelli che, poco tempo dopo, furono i partigiani.
Noi abitavamo in una zona che divideva i campi dall’inizio del bosco: lì, di notte, di partigiani ne passavano tanti. Venivano da Vignola, Castelvetro e Maranello, e attraversavano la Giardini per raggiungere le montagne, Montefiorino. Quando passavano, i cani abbaiavano. Col passare del tempo, sparirono tutti: i loro latrati erano così forti che allertavano i nazifascisti.
Gli americani, quando dovevano avanzare, mandavano avanti dell’avanguardia in borghese che, con una radiotrasmittente, comunicava loro le informazioni sui nazifascisti. Questi ultimi ne intercettarono una in un cortile in cui abitavano quattro famiglie, tra cui quella di mio cognato. La casa padronale era stata infatti affittata a un signore e a sua moglie che collaboravano con gli americani: lui riuscì a fuggire con la radiotrasmittente nel bosco prima dell’arrivo dei nazifascisti, ma lei non fece in tempo. Dopo averla interrogata, i tedeschi la portarono nel prato dietro la stalla di mio cognato, dove io e i miei amici giocavamo nel tempo libero, e in sedici la violentarono. Dopo quell’episodio sparirono e di loro non abbiamo più saputo niente.
Cominciarono così i rastrellamenti. A Riccò vi era stanziato un distaccamento di soldati tedeschi. Non erano tantissimi, ma erano lì con noi. Erano abituati ad andare di casa in casa a prendere da mangiare. Ricordo che quando trovavano lo strutto, ne mettevano sempre tanto sopra al pane e lo mangiavano con foga. Mi parevano dei maiali. Una domenica mattina d’estate, uno di loro si allontanò dal paese e incontrò due partigiani. Gli diedero l’altolà, lo disarmarono e poi, dopo aver fatto due fermate, lo portarono da mio cognato. Lì, lo fecero mangiare assieme a loro e poi lo fecero spogliare, perché le divise tedesche servivano ai partigiani per poter andare a prelevare cibo, fumo e armi dai comandi tedeschi. Dopo averlo fatto vestire in abiti borghesi, lo liberarono. Che non l’avessero mai fatto. Arrivarono più di mille tedeschi da Vignola, Maranello, Serramazzoni e Pavullo. Quella mattina, mia madre si era recata a messa e la fermarono mentre tornava a casa nel secondo posto in cui erano stati i partigiani e il tedesco. Lei si ribellò dicendo loro di avere noi a casa, e per fortuna non le fecero niente. Dopo un’ora l’intera zona era circondata. Eravamo circa una settantina in tutto e ci radunarono in prossimità delle tre case in cui si erano fermati i partigiani col prigioniero tedesco. Le donne e i bambini vennero rinchiusi dentro a una stalla. Noi ragazzi, che avevamo quindici, diciassette e diciotto anni al massimo, perché quelli più grandi erano tutti a militare, ci chiusero dentro la cucina di una delle case. Il tedesco che era stato lì coi partigiani disse ai suoi compagni: «Quelli lì partigiani». Per mio fratello, mio cognato e altri tre della zona, appesero dei cappi alla grossa quercia nel cortile.
Fu il figlio del procuratore del Re a salvarci la vita. Lui, avendo una paura tremenda della guerra, allo sbarco degli americani si era spostato da Roma sino alla nostra zona. Conosceva bene il tedesco, che parlava come noi parlavamo l’italiano. Allora domandò al comandante tedesco che cosa avesse intenzione di farci. Quest’ultimo rispose che i suoi soldati avrebbero bruciato la stalla con dentro i vecchi, le donne e i bambini, e avrebbero impiccato alla quercia i cinque partigiani. In quanto a noi ragazzi, aveva deciso che saremmo andati a lavorare in Germania. Alchè, il figlio del procuratore del Re disse: «Guardi, io abito in questa zona da circa due mesi. Le garantisco che qui vive solo brava gente che lavora tanto. Se hanno aiutato i partigiani, lo hanno fatto perché costretti. Come voi, i partigiani dovevano essere armati e avrebbero potuto fare loro del male.»
I tedeschi si consultarono. Il comandante tedesco si preparò per parlarci e il figlio del procuratore del Re ci raccomandò di dire sempre di sì.
«Badate» ci disse l’interprete del comandante tedesco, «dovevamo impiccare quei cinque, portare voi in Germania e bruciare tutto. Questo non lo facciamo più perché ho capito che siete brava gente. Dovete però prometterci che, qualora i partigiani tornassero, manderete qualcuno ad avvisarci.»
Ci ricattavano in questo modo, i tedeschi. Rispondemmo comunque di sì, nella speranza che non uccidessero nessuno. Ma non finì lì. Dalla casa di mio cognato, i tedeschi portarono in cortile la tavola da pranzo e la posizionarono vicino alla quercia. Poi presero mio cognato e, dandogli dei pugni in faccia, cominciarono a domandargli ripetutamente se fosse un partigiano. Poi lo fecero sdraiare e cominciarono a picchiarlo. Un soldato teneva stretto i piedi e un altro la testa. Lui, poveretto, rispondeva che no, non era un partigiano, ma loro continuarono lo stesso a picchiarlo con mani e bastoni. E quelli che picchiavano e che rastrellavano, non erano tutti tedeschi. Tra di loro vi erano anche italiani, i nostri fascisti, coi bastoni. Erano loro che guidavano i rastrellamenti. Fecero così con tutti e cinque quelli che avrebbero dovuto impiccare. E se qualcuno non riusciva a scendere dal tavolo alla fine dell’interrogatorio, lo buttavano giù per terra, come fosse stato un maiale.
Dopo fecero uscire anche noi ragazzini e cominciarono a fare altrettanto. Volevano che dicessimo che eravamo partigiani, così avrebbero potuto ammazzarci tutti. Tra di noi c’era anche Erio, il figlio di mia sorella maggiore. Aveva più o meno la mia età, ma da piccolo aveva avuto la poliomielite e la sua faccia era deformata. I suoi genitori gli avevano fatto fare solo la prima elementare perché dicevano che non era normale, anche se per me era più intelligente di tanti altri. Lui ai tedeschi rispose con freddezza, soltanto con «sì» e «no». Non disse nient’altro e forse per questo, i soldati pensarono che li stesse prendendo in giro e lo picchiarono ancora più forte. Quando ebbero finito, la sua faccia era una maschera di sangue e gli erano caduti due denti.
Io, di tutti, fui il più fortunato. Avevo studiato un po’ di più degli altri e parlavo italiano. Al «Sei partigiano?» risposi di no. Pum! mi diedero un pugno. Mi girai dall’altra parte e Pum! mi arrivò un altro pugno. I colpi erano così forti che pensai che la mia testa si sarebbe spaccata come un cocomero.
«Dove sono i partigiani» mi chiesero.
«Non lo so» risposi.
«Hai sentito passare i partigiani, questa notte?» domandarono.
«Io questa notte ho sentito del rumore» risposi «però avevo paura e sono rimasto a letto. Non ho visto se erano i partigiani, ma ho sentito del rumore e i cani abbaiavano.»
Lo dissi perché tanto quelle erano cose che sapevano già. Mi diedero un altro paio di pugni e poi smisero.
Quando ebbero finito, ci avviammo tutti per l’unica via che c’era per tornare a casa. Era una strada che ai due lati della carreggiata aveva piante e siepi: da una parte c’erano i campi e le case, e dall’altra gli argini del bosco. Ci accorgemmo che a entrambi i lati della via c’erano soldati tedeschi, uno a circa dieci metri dall’altro, con i mitra spianati. Un momento dopo sentimmo: «Alt! Alt! Alt!». Restammo immobili, lì in mezzo alla strada, per dieci minuti. Le donne e i bambini cominciarono a piangere. Alcune mamme dicevano, con la voce rotta, «Adesso ci fanno come in quel posto». Poco tempo prima, in un altro paese, era successo che dopo un rastrellamento, i tedeschi avevano detto alle persone di andare a casa e poi le avevano mitragliate tutte. Un paio di persone svennero. In quel momento, se si pensava a quel fatto lì, era davvero facile svenire. Aspettammo ancora e finalmente uno dei tedeschi disse «Potete andare» e ognuno tornò alla propria casa.
La mattina del giorno dopo, verso le sei del mattino, i tedeschi tornarono. In seguito, imparammo che erano passati anche dove erano stati i partigiani e il tedesco. Ci domandarono se avessimo bisogno del dottore. Nonostante le croste e il dolore, rispondemmo di no e finì così. In realtà erano venuti a controllare che non ci fossero i partigiani.
Non tutti i tedeschi erano così crudeli e cattivi. Una volta, alcuni di loro vennero a casa nostra a cercare da mangiare. Trovarono una sfornata di pane fresco e una vescica piena di strutto. Uno di loro non allontanava lo sguardo da mia nipote Anna, la figlia di mia sorella. Aveva i capelli ondulati e biondi, sembrava un angelo. All’epoca aveva sette anni ed era di una bellezza rara. A un certo punto gli occhi del soldato si riempirono di lacrime.
«Anche io avere una bimba così» disse, «io non so mica se la potrò rivedere.»
Poi tirò fuori cento lire. C’era una tale miseria che noi, quella banconota grande e grossa, non l’avevamo neanche mai vista perché in quel periodo di soldi ce n’erano pochi. E in quegli anni, con cento lire, si comprava un paio di buoi, erano soldi! A mia sorella vennero le lacrime agli occhi dall’emozione. Non era abituata ad avere dei soldi in casa e decise quindi di metterli in una scatola di lamiera che nascose fra i coppi e i listelli di legno del soffitto della camera. La sfortuna volle che purtroppo quei coppi erano rotti, e a guerra finita, quando andò a recuperarla, si rese conto che la scatola era bagnata e che i soldi erano marciti.
I primi giorni del febbraio del 1945 mi rastrellarono mentre stavo giocando a carte nella stalla. Presero anche mio fratello, mio cognato e altre persone. Ciò che ricordo è il freddo tremendo di quell’inverno. Ci portarono fino a Pavullo, dove si trovava un comandante fascista che era una bestia. Fu lui che torturò anche Corrado Ori4 dopo il combattimento di Gombola. Ci interrogarono e anche in quell’occasione ci schiaffeggiarono: ancora una volta volevano che dicessimo di essere partigiani e che rivelassimo dove fossero gli altri ribelli.
La sera eravamo convinti di poter andare a casa e invece non fu così. Al comando «Raus! Fuori!» ci fecero incolonnare e poi, con due tedeschi davanti e due di dietro, camminammo fino al Panaro. Nevicava, pioveva e c’era un freddo cane! Eravamo a piedi ed eravamo anche mezzi svestiti perché quando ci avevano prelevato da casa non ci avevano dato tempo per prepararci al viaggio. Per fortuna mia sorella aveva fatto in tempo a darmi una piccola mantellina che aveva fatto a mano. Attraversato il ponte di Samone5, passammo per Montese e andammo fino a Maserno, dove finalmente ci fermammo e i tedeschi ci divisero in tre case. Nella mia eravamo in trenta e dormivamo in un unico granaio al piano alto di una casa abitata da una famiglia che, come scoprii poco tempo dopo, era in contatto coi partigiani. Avevano aperto due balle di paglia, per terra, e dormivamo lì, senza riscaldamento e niente.
I tedeschi ci facevano lavorare sia di giorno che di notte. Andavamo a scavare le trincee in cima al Monte Belvedere. Chi l’avrebbe mai detto che dall’altra parte della Linea Gotica, tra le file dei partigiani di Armando e dei soldati americani, si trovava anche il mio amico Cosimo Vandelli6! Una volta ci fecero persino trainare su, in mezzo al bosco, con un metro di neve, anche un compressore. Ma di giorno, quando non c’era da lavorare, tagliare la legna o cose simili, potevamo anche riposarci. Allora cominciammo a pensare a come scappare. Mio fratello Luigi, che allora aveva diciannove anni, era con un’altra squadra e voleva scappare assieme a me. Chiese al comandante di metterci nella stessa squadra, ma chissà, forse lui mangiò la foglia e non ce lo permise. Allora dissi a Luigi: «Se riesci a scappare, scappa. Se capita a me, lo faccio io».
La sera i tedeschi bevevano fino a ubriacarsi. Una notte, mio fratello, mio cognato, il fratello di mio cognato e due vicini di casa si procurarono due bottiglie di vino. Le diedero ai tedeschi di guardia, che si ubriacarono e loro riuscirono a scappare. La mattina dopo, i soldati ci radunarono in una vecchia casa che era stata trasformata in un ospedale da campo. Il comandante ci disse: «Questa notte sono scappati in cinque e adesso noi fuciliamo cinque di voi».
Io ero sicuro di essere tra quelli che avrebbero fucilato, ma non avevo paura: eravamo abituati alla violenza dei tedeschi e dei fascisti. Fortunatamente, anche quella volta non fecero niente.
Tre giorni dopo, il tredicesimo giorno in mano ai tedeschi, riuscii a fuggire anche io assieme un uomo di circa sessant’anni col quale avevo fatto amicizia: lui era stato rastrellato in zona Giardini assieme al figlio, che si chiamava Renzo come me. Suo figlio, però, l’avevano portato a Salto, nel comune di Montese. Infatti, quando fu ora mi disse: «Ti chiami come mio figlio, faccio finta di scappare con lui.»
Se riuscimmo a fuggire fu grazie ai figli della famiglia che viveva nella nostra casa. Loro erano gli stessi che, come scoprii, avevano aiutato anche mio fratello. Scappammo con uno dei due, che ci fece da accompagnatore. A un certo punto dovevamo attraversare una strada, ma proprio in quel momento stava passando una colonna di persone. Non si riusciva a capire se fossero tedeschi o partigiani, così ci buttammo giù nel fosso. L’acqua era gelida, era acqua di neve. Restammo immersi fino al collo per cinque, forse dieci minuti. Quando le ombre furono passate e non le vedemmo più, uscimmo dall’acqua e attraversammo la strada.
Vicino al Panaro, in direzione di Sassoguidano, entrammo in una casa vecchia e abbandonata, che doveva essere un crocevia di passaggio dei partigiani poiché vi era un fuoco acceso. Allora l’accompagnatore mi disse: «Io devo andare via. Devo essere a casa domani mattina perché se i tedeschi non mi vedono, vorranno sapere dove sono stato. Fra poco arriva la persona che ha aiutato il gruppo di tuo fratello.» E così fu. Arrivò un uomo.
«Siete voi?» chiese.
«Sì, siamo noi» risposi io. Notai che aveva un brutto raffreddore.
Poco dopo disse: «Avrei dovuto portarvi io di là dal fiume. Ma non ce la faccio, ho preso una bronchite nei giorni scorsi quando ho aiutato un altro gruppo. Vado a chiamare un amico che lo farà al posto mio.»
Arrivò un altro uomo sulla sessantina che, giunti sull’argine del Panaro, chiese: «Chi monta per primo in spalla?»
«A mount sò me7» risposi io.
«Vi spiego una cosa» ci disse prima di entrare in acqua, «Io ora vi porto di là, però mi dovete promettere che non aprite gli occhi. Perché se li aprite quando siamo nell’acqua, andiamo giù tutti.»
E infatti, un bel momento, era un po’ che ero in mezzo all’acqua, pensai: «voglio vedere dove sono.»
Non appena aprii gli occhi lui se ne accorse e disse:
«Chiudi! Chiudi gli occhi! Altrimenti affondiamo tutti e due!»
A me l’acqua arrivava soltanto fin sopra alle spalle; a lui, invece, arrivava fin sopra al collo. Mi portò dall’altra parte e poi fece lo stesso con l’uomo che era con me. Alla fine, quando fu il momento di salutarci, gli domandammo quanti soldi dovesse avere. Io in tasca avevo centotrenta lire perché i tedeschi ci pagavano. Lavorare con loro era come lavorare per la Todt, però noi eravamo stati obbligati a farlo. Quei soldi avrei voluto portarli a casa perché sapevo che ne avevamo un gran bisogno, ma poi pensai
«Povero diavolo, ci ha fatto passare il Panaro.»
L’uomo disse ancora una volta di non volere niente, ma noi gli lasciammo comunque cento lire a testa. Ci avviammo per la strada che ci aveva indicato. Avevo una fame… al mio amico dissi: «A gò na fam c’av magnarev di cióld 8».
Perché i tedeschi ci davano da mangiare soltanto una volta al giorno, a mezzogiorno, una scodella di lenticchie.
Ci trovammo di fronte a tre case. Davanti a una di esse c’erano una signora e suo marito. Il mio amico, dopo averli salutati, chiese:
«Signora, non ha mica un pezzo di pane per questo ragazzo? Me ripieg 9, ma lui ha una tale fame…».
Allora lei rispose: « Sì, sì che ce l’ho. Qualche crostino di pane… ho del brodo, vi faccio una zuppa.»
Il brodo di francesina che ci preparò l’ho in mente ogni volta che mangio. Quella fu la zuppa più buona che io abbia mai mangiato.
Il marito ci accompagnò per un tratto di strada. Sotto Sassoguidano si vedevano le mitraglie della contraerea che sparavano a Pippo e agli apparecchi americani che venivano a bombardare le truppe tedesche. Per non farci vedere passammo sotto l’argine. Arrivammo in una casa in cui mio fratello, prima della guerra, andava a ballare: eravamo a una quindicina di chilometri da casa. Lì abitavano tre sue amiche che ci dissero che anche lui aveva fatto quel percorso. Dopo averci dato da mangiare, una di loro salì in cima alla strada e quando vide che era libera, ci fece segno di attraversare.
Scendemmo fino a Benedello. Era venuto buio, pioveva e nevicava sempre ed eravamo bagnati fradici. Decidemmo di rifugiarci in una stalla, ma quando entrammo notai che era stata data alle fiamme e rimanevano soltanto le pareti.
«Ragasél, ragasél» disse il mio amico, «del fieno!»
In un angolo, infatti, c’era un mucchio di fieno buono. Ci entrammo dentro. Eravamo felici perché finalmente avremmo potuto asciugarci un po’. Però, dopo circa dieci minuti, notammo che non riuscivamo a scaldarci. I nostri denti battevano dal freddo. Il mio amico disse:
«Ragasèl, sai una cosa? Se ci alziamo ora, andiamo via con le nostre gambe. Ma se aspettiamo domani mattina, sarà qualcun altro a portarci fuori.»
Allora tornammo per strada. Andammo a finire in un bosco dove vagammo per tutta la notte alla ricerca di una casa, una stalla, un posto in cui poterci rifugiare. Non trovammo niente.
Il mattino successivo vedemmo il campanile di Coscogno. A Ospitaletto, ci ritrovammo in cima a una collina: vedevo Riccò e anche casa mia. Decisi però di aspettare il buio per muovermi, perché sapevo che lì intorno vi era una spia che avvisava i tedeschi e i fascisti.
Mia madre non credeva ai propri occhi. Mio fratello Luigi, quando era tornato a casa, le aveva detto che non ero riuscito a scappare assieme a lui e lei s’era fatta l’idea che i tedeschi mi avessero ucciso. Mia sorella riempì un catino di acqua calda e mi fecero fare il bagno nella stalla. Poi mi prepararono da mangiare. Mentre mangiavo, videro che continuavo a grattarmi. Allora scaldarono altra acqua e mi feci un altro bagno. Il giorno dopo, al mio risveglio, mi trovai addosso altri pidocchi. Soltanto pochi giorni fa, mio nipote, che era presente quella sera, mi ha detto: «Mi viene sempre in mente quando hai fatto il bagno nella stalla e c’era quello strato di pidocchi che galleggiava nel catino…»
In un altro rastrellamento, io ed Erio riuscimmo a scappare in tempo per non farci prendere. Finimmo sotto la via Giardini, in zona Montagnana, a casa di un contadino. Lì trovammo anche Emilio, il figlio renitente, e un altro suo amico, Otello, che possedeva una pistola e che forse era collegato ai partigiani. Calato il sole, io ed Erio volevamo tornare a casa, ma il contadino ci fece cambiare idea, dopotutto avremmo dovuto attraversare il fiume. Alla fine passammo la nottata in un rifugio a pochi metri dalla casa del contadino, assieme agli altri due ragazzi.
Al mattino, alzammo la botola: si sentivano i crepitii degli spari, ma lì dove eravamo noi non c’era nessuno. Allora dissi a mio nipote: «Erio, andiamo a casa?» E così facemmo. Emilio e Otello richiusero la botola e rimasero lì. Dopo un po’ di strada, ci guardammo indietro per vedere che non ci fosse nessuno. Vidi che i tedeschi avevano già superato la casa e il rifugio in cui avevamo passato la notte e che per fortuna non era successo niente.
«Si sono salvati» pensai.
I tedeschi, però, quando facevano i rastrellamenti mandavano sempre avanti una vedetta e ne lasciavano sempre un’altra dietro di loro. Questo consentiva loro di non essere sorpresi alle spalle. Emilio e Otello, non sentendo più alcun rumore, pensarono che tutti i tedeschi se ne fossero andati e una vedetta sparò loro non appena aprirono la botola. Lì ferì entrambi: quello messo peggio era Emilio, i cui genitori avevano assistito alla scena dalla finestra di casa loro. Allora i tedeschi obbligarono Otello a caricare il compagno sulle proprie spalle. Scesero fino al fiume, dove trovarono un biroccio. Fecero sdraiare sopra Emilio e Otello cominciò a trainare. Arrivarono a Maranello, dove volevano fucilarli. Il Podestà però non diede il permesso, così si spostarono a Spezzano. A ridosso di un fosso, Otello scavò le buche per entrambi. Emilio, nel frattempo, diceva:
«Dai, fai presto così la finiamo.»
Lì, si dice che li abbiano seppelliti che non erano ancora morti: ecco come erano i tedeschi e i fascisti.
Lavorai anche con le brigate partigiane. Mi facevano portare gli ordini. Passai tante volte anche in mezzo ai soldati tedeschi, che non mi fermavano perché dimostravo meno anni di quanti in realtà ne avessi. Avevo un tale coraggio… non so come facessi.
Feci anche da vedetta, perché quello era un periodo in cui i tedeschi facevano rastrellamenti di continuo, e i partigiani, quando si dovevano spostare da una zona all’altra, magari per prendere dei rifornimenti, avevano bisogno che qualcuno li aiutasse.
Una volta mi diedero un pezzo di stoffa rosso e uno bianco, e mi incaricarono di andare su una collina.
«Te vai là in cima» dissero, «e quando sei là, se vedi i tedeschi ti soffi il naso con lo straccio rosso. Se vedi che la zona è libera utilizzi quello bianco.»
Loro, dalle loro posizioni, mi guardavano con il binocolo in attesa di sapere se passare oppure no.
Un’altra volta, stavo tornando a casa dopo aver partecipato alla messa alla chiesa di Puianello. Passai davanti al caseificio. Lì, vidi dei partigiani. Dissero a me e a un altro ragazzo:
«Ragasèl, dove abitate voi?»
Rispondemmo. Dissero che eravamo di strada.
«Venite con noi, che andiamo a prendere del formaggio da portare a Montefiorino.»
Caricammo le forme su due birrocci trainati dai buoi e partimmo, loro, i partigiani, davanti e dietro di noi a sorvegliare la zona con i mitra spianati. Passarono ad avvertire le nostre famiglie che li avremmo aiutati fino alla Giardini, ma che poi saremmo tornati indietro.
Arrivati vicino alla destinazione, ci accorgemmo che c’era un gruppo di nazifascisti.
«Ragasèl, ragasèl! Portate i buoi in mezzo al furmintòun!10»
E così ci nascondemmo nel granoturco. I partigiani rimasero accovacciati davanti a noi, riparati da un argine, così che se i tedeschi ci fossero venuti incontro ci avrebbero difeso. E lì, aspettammo. Per fortuna, i tedeschi, invece di venire verso di noi, cambiarono direzione.
Passato mezzogiorno, mi era venuta una gran fame.
«Ho fame» dissi all’altro ragazzo.
Uno dei partigiani mi sentì e allora prese una delle forme e ci schiantò sopra un grosso sasso. Cominciai a mangiare il formaggio come se fosse pane; non ne ho mai mangiato così tanto in tutta la mia vita. Per sicurezza rimanemmo lì ancora un altro po’. Poi uno dei partigiani uscì dall’argine e andò a controllare la strada. E così attraversammo la Giardini. Più avanti incontrammo altri partigiani. Consegnammo i birrocci e le forme, e poi tornammo a casa contenti perché c’eravamo tolti di dosso la fame e tanto ci bastava. Quello di una volta era un mondo diverso.
Poi venne il giorno della liberazione. Non so mica descrivere la mia felicità. Eravamo tutti in strada. C’erano le brigate partigiane che andavano giù per la via Giardini, in direzione di Modena.
«Armando, Armando, cosa importa se si muore, questo è il grido del valore…» cantavano, «… I ribelli, i ribelli…cosa importa se si muore…»
Eppure, quando penso al mondo in cui viviamo oggi mi cascano le braccia. Fino a poco tempo fa mi prendevo cura del verde del parchetto che si trova accanto a casa mia. Un giorno c’era un gruppo di ragazzi e sentii che uno di loro diceva:
«Io sono fascista! Io sono fascista!».
Allora chiesi loro: «Sapete cosa vuol dire essere fascista?»
Risposero di no. Glielo spiegai io, che quando andavo a scuola c’erano i balilla e le piccole italiane. All’inaugurazione della strada che va da Castelvetro a Riccò venne il Duce in persona. Io ero tra i bambini che non avevano il vestito da Balilla. Non me lo potevo permettere. Allora le maestre dovettero andare in prestito agli altri paesi vicini. Tutto questo soltanto per applaudire il Duce.
Ci sono delle persone che queste cose non le capiscono mica. Ma la maggioranza credo che stia cominciando a capirle. Si sente dire che la Resistenza la fecero tutti e che è di tutti. Volevano paragonarla al fascismo, ma non è mica così. Una parte, i più vecchi, il nocciolo duro, erano socialisti. Ma tanti, la maggior parte dei partigiani, era comunista. Perché dalla rivoluzione che era scoppiata si sperava che potesse nascere un mondo migliore. Anche io sono stato comunista. Non mi vergogno a dirlo, ne sono orgoglioso. Ora sappiamo che all’epoca in Russia vi era una dittatura, ma allora non lo sapeva mica nessuno.
Ora ti parlo di mio zio, che mi fece da papà quando mio padre Guido morì. La sua famiglia lavorava un podere a San Venanzio da più di cento anni. Avevano tanta frutta e tante bestie. Il padrone, che era di Modena, non andava mai a controllare; era mio zio che teneva dietro alla contabilità e che quando era ora gli portava il guadagno.
Mio zio era un uomo rispettato da tutti, una persona autoritaria, ma nel giusto.
Era comunista, e nonostante il parroco del paese questo lo sapesse, era a lui che si rivolgeva quando aveva bisogno di contadini per lavorare i poderi di proprietà della Chiesa.
Io, per mio zio, badavo alle bestie e raccoglievo le ghiande con cui si faceva la farina per i buoi e i maiali. A volte tornavo a casa a tardo pomeriggio, altre volte dormivo là. Alla sera, quando faceva freddo, mi metteva il pret 11 con le braci nel letto, per scaldarmi. E poi lui, che era sempre l’ultimo ad andare a dormire, mi veniva a coprire, come se fossi suo figlio.
Mi chiamava Barbaun 12, anche se di barba io ne ho sempre avuta poca.
Dopo la caduta del Fascismo cominciò ad aiutare i militari sbandati: dava loro cibo e vestiti anonimi in cambio delle loro divise, le quali venivano portate da suo figlio, il partigiano Plucco13, su in montagna. Alcuni degli sbandati ringraziavano e tornavano per la propria strada nel tentativo di raggiungere la famiglia; altri decidevano invece di andare con i partigiani.
Quando una spia svelò ai fascisti ciò che mio zio faceva, diversi soldati tedeschi circondarono il podere. Fecero uscire tutti e svuotarono l’abitazione: nove carri di roba in totale. Dopodiché caricarono su una camionetta mio zio, assieme a sua moglie e i loro quattro figli, il fidanzato di una delle figlie, e Gino, il fratellastro. Risparmiarono soltanto i due anziani, che avevano più di ottant’anni. Ma non li lasciarono mica ritornare in casa: posizionarono uno dei materassi sotto a un fico e lì sopra li sbatterono prima di andarsene.
Mio nipote, Plucco, in quel momento assisteva alla scena da un punto panoramico poco lontano. Era assieme ad altri due partigiani ed erano tutti e tre armati. Voleva andare ad aiutare la propria famiglia e gli altri due dovettero bloccarlo: erano soltanto in tre e avrebbero rischiato di fare uccidere tutti.
Mentre la camionetta tedesca attraversava il ponte di barche, sul fiume Po, un apparecchio americano scese in picchiata e cominciò a mitragliare. Nella confusione, qualcuno dei prigionieri riuscì a scappare. I tedeschi recuperarono solamente mio zio, sua figlia, il moroso di sua figlia e il fratellastro. Vennero tutti e quattro deportati in Germania, dove mio zio venne internato nel campo di concentramento di Buchenwald e a Dachau. Lì rimase due anni. Raccontava che i prigionieri che non potevano lavorare li mettevano a pelare le patate. Quando sapevano di non essere visti, ne mangiavano qualche scarto. Una volta, uno di loro venne beccato e lo fucilarono sul posto.
Mi raccontò anche un altro episodio. Di sera, al campo, i nazisti erano soliti mangiare e ubriacarsi. Uno di loro vomitò a terra e si allontanò traballante. Un prigioniero, che evidentemente aveva assistito alla scena, raccolse con una mano il vomito e cercò di mangiarlo. Il nazista lo vide e lo falciò col mitra.
Quando lo presero da casa sua assieme alla famiglia, mio zio era ottantadue chili. Venne a casa dopo la fine della guerra che ne pesava trentotto. Però si salvò, e come lui, anche gli altri con cui era stato deportato.
La spia era nota in paese. Dopo la fine della guerra, forse a causa dei sensi di colpa, si presentò alla porta della casa di mio zio deciso a scusarsi.
«Guardi, mi deve perdonare» gli disse, «Io mi scuso per il male che ho fatto. Se vuole, la posso aiutare».
Come ho già detto, prima di portarlo in Germania i tedeschi e i fascisti gli avevano portato via ogni cosa. In quel periodo lavorava con le bestie che il Comitato di Liberazione Nazionale gli aveva dato. Allora lui rispose:
«Io da te non voglio niente. Se volessi qualcosa, mi prenderei la tua pelle.»
Però mio zio era un uomo buono e la questione finì lì.
Un’ultima cosa voglio dire. Molti dicono che i partigiani erano persone che volevano andare in montagna per sparare e uccidere. Non è mica vero. Dopo l’8 settembre 1943, ai militari fu detto che era permesso loro di tornare a casa. Quando i fascisti si organizzarono con la cosiddetta Repubblica di Salò, cominciarono a cercare quei soldati di casa in casa. I più fortunati furono spediti a lavorare in Germania. Gli altri vennero torturati e uccisi.
Molta gente, anche se magari non era d’accordo con le idee principalmente socialiste e comuniste dei partigiani, dava comunque appoggio, cibo e aiuto. Non faceva la spia. Questo perché si pensava che, con i partigiani, la guerra sarebbe finita prima. Tutte le famiglie avevano qualcuno che era al fronte. A casa c’erano sole donne, ragazzi e bambini, che di certo non potevano lavorare.
Vicino a casa mia abitava una famiglia composta da marito, moglie e due anziani. Il marito era via e i tre a casa non potevano lavorare il podere. Lui, in tempi di guerra, prima dell’Armistizio, era stanziato in un isola greca. Fu uno dei tanti soldati italiani che si rifiutarono di arrendersi ai tedeschi14 e venne fucilato. Aveva ventiquattro anni e rimase là. Si chiamava Carlo, me lo ricordo bene.
Ricordo che il 23 febbraio del 194515 gli americani bombardarono Villa Martuzzi, in frazione di Campiglio e poco distante da Vignola. Quel bombardamento riportò alla luce i corpi di diciassette persone, tutti civili16. Due delle vittime, delle ragazze, le trovarono con dei bastoni infilati nei genitali. Ecco cosa facevano i tedeschi e i fascisti. I partigiani nacquero anche come risposta a questo.
Quando ero piccolo c’era una miseria che faceva scintille. Per fortuna abitavo in una zona in cui le persone erano gentili e se qualcuno aveva bisogno lo si aiutava. Eravamo tutti per uno e uno per tutti. Sono nato a Riccò di Serramazzoni. La mia casa era poco prima di Pazzano e per andare a scuola dovevo fare cinque chilometri a piedi ogni giorno. Ci impiegavo più di un’ora. Io partivo, dall’ultima casa del paese, e passando davanti alle altre casa il gruppo diventava sempre più numeroso. Arrivavamo a scuola che eravamo una trentina. Al ritorno succedeva il contrario.
C’era miseria, ma eravamo felici. Quando ne avevo la possibilità, andavo ad aiutare le altre famiglie, che in cambio di un po’ di lavoro mi davano qualcosa da mangiare. Nel nostro cortile abitavano i Franchini. La loro era una famiglia grande e benestante, ma non avevano ragazzi. Mi chiamavano per badare le mucche e andare in campagna a mettere giù i legacci per il grano poiché, anche se ero piuttosto minuto, ero sveglio e in gamba.
Il nostro parroco Don Achille Vecchiati e mio padre Guido erano nati il medesimo giorno. Erano cresciuti assieme ed erano grandi amici. Allora, quando mio padre morì, Don Achille disse a mia madre: «Se hai un figlio a cui piace studiare, lo mandiamo in collegio». Accettai la proposta perché all’epoca ero garzone a Torre Maina, e lavorare in campagna era molto faticoso. Partii così per l’Osservanza, sulle colline sopra Bologna, dove rimasi per tre anni e mezzo. Quando la guerra arrivò, Bologna era sempre bersaglio dei bombardamenti e restare era pericoloso. Dovetti andarmene. A Villa Verucchio, in provincia di Rimini, cominciai a servire la messa. Quando tornai a casa, mi accorsi che alcune delle bambine con cui ero andato a scuola erano diventate delle belle ragazzine. Un giorno, fuori dalla chiesa, ero in loro compagnia. Il prete, vedendomi, si arrabbiò.
«Cosa ci fai lì in mezzo! Adesso te le do io!» mi disse.
Dopo quell’episodio smisi di andare a servire la messa, il che mi fa sorridere ancora oggi.
La mia famiglia era molto numerosa. In tutto eravamo in dieci tra fratelli. Due di loro morirono quando erano ancora molto piccoli. In quattro andarono via: i maschi come garzoni a casa di alcuni contadini, le femmine a lavorare a casa di alcuni signori, chi a Modena e chi a Bologna. Alla morte di mio padre avevamo abbandonato la terra in cui avevamo sempre vissuto poiché non potevamo più fare i contadini. Eravamo andati ad abitare assieme a Maria, mia sorella maggiore, che era già sposata e aveva sei figli. Il padrone aveva saputo della morte di mio padre e le aveva detto che potevamo stare da lei. Abitavamo in un ambiente che era sei metri per quattro. In un angolo della stanza c’era il camino. Poi c’era una panarina con sopra il tuler1 che usavamo anche come tavolo da pranzo, un vecchio cantaràn2 e un letto matrimoniale che aveva il materasso fatto da foglie di granoturco. In quell’ambiente abitavamo in sei, e a letto dormivamo tre dalla testa e tre dai piedi. La legna che adoperavamo per scaldarci la andavamo a prendere direttamente dal bosco. La vita allora era semplice e la porta della nostra casa era sempre aperta: la marlàtta3 che avevamo era frusta e non chiudeva bene. Una sera, ricordo, il letto cominciò a tremare e ci svegliammo pensando che ci fosse il terremoto. Non appena ci guardammo attorno notammo che eravamo circondati dalle pecore di una delle famiglie che abitavano lì vicino. Erano riuscite a entrare.
Dopo la notizia dell’Armistizio di Cassibile si pensava che la guerra fosse finita e molti soldati tornarono a casa. Un giorno vidi un campo a cui bisognava togliere l’erba. Al mattino successivo, dell’erba non c’era più nessuna traccia. Una cosa simile successe un’altra volta: notai un campo di grano pronto per essere lavorato e il giorno dopo il grano era stato tagliato. Capii cosa succedeva: gli uomini che erano tornati a casa dalla guerra, di giorno restavano nascosti nei rifugi che avevano costruito e di notte uscivano a dare una mano alle famiglie che abitavano nelle nostre zone. Perché, per colpa della guerra, a casa erano rimasti soltanto donne, bambini e persone anziane. Fu così che mi accorsi dell’esistenza di quelli che, poco tempo dopo, furono i partigiani.
Noi abitavamo in una zona che divideva i campi dall’inizio del bosco: lì, di notte, di partigiani ne passavano tanti. Venivano da Vignola, Castelvetro e Maranello, e attraversavano la Giardini per raggiungere le montagne, Montefiorino. Quando passavano, i cani abbaiavano. Col passare del tempo, sparirono tutti: i loro latrati erano così forti che allertavano i nazifascisti.
Gli americani, quando dovevano avanzare, mandavano avanti dell’avanguardia in borghese che, con una radiotrasmittente, comunicava loro le informazioni sui nazifascisti. Questi ultimi ne intercettarono una in un cortile in cui abitavano quattro famiglie, tra cui quella di mio cognato. La casa padronale era stata infatti affittata a un signore e a sua moglie che collaboravano con gli americani: lui riuscì a fuggire con la radiotrasmittente nel bosco prima dell’arrivo dei nazifascisti, ma lei non fece in tempo. Dopo averla interrogata, i tedeschi la portarono nel prato dietro la stalla di mio cognato, dove io e i miei amici giocavamo nel tempo libero, e in sedici la violentarono. Dopo quell’episodio sparirono e di loro non abbiamo più saputo niente.
Cominciarono così i rastrellamenti. A Riccò vi era stanziato un distaccamento di soldati tedeschi. Non erano tantissimi, ma erano lì con noi. Erano abituati ad andare di casa in casa a prendere da mangiare. Ricordo che quando trovavano lo strutto, ne mettevano sempre tanto sopra al pane e lo mangiavano con foga. Mi parevano dei maiali. Una domenica mattina d’estate, uno di loro si allontanò dal paese e incontrò due partigiani. Gli diedero l’altolà, lo disarmarono e poi, dopo aver fatto due fermate, lo portarono da mio cognato. Lì, lo fecero mangiare assieme a loro e poi lo fecero spogliare, perché le divise tedesche servivano ai partigiani per poter andare a prelevare cibo, fumo e armi dai comandi tedeschi. Dopo averlo fatto vestire in abiti borghesi, lo liberarono. Che non l’avessero mai fatto. Arrivarono più di mille tedeschi da Vignola, Maranello, Serramazzoni e Pavullo. Quella mattina, mia madre si era recata a messa e la fermarono mentre tornava a casa nel secondo posto in cui erano stati i partigiani e il tedesco. Lei si ribellò dicendo loro di avere noi a casa, e per fortuna non le fecero niente. Dopo un’ora l’intera zona era circondata. Eravamo circa una settantina in tutto e ci radunarono in prossimità delle tre case in cui si erano fermati i partigiani col prigioniero tedesco. Le donne e i bambini vennero rinchiusi dentro a una stalla. Noi ragazzi, che avevamo quindici, diciassette e diciotto anni al massimo, perché quelli più grandi erano tutti a militare, ci chiusero dentro la cucina di una delle case. Il tedesco che era stato lì coi partigiani disse ai suoi compagni: «Quelli lì partigiani». Per mio fratello, mio cognato e altri tre della zona, appesero dei cappi alla grossa quercia nel cortile.
Fu il figlio del procuratore del Re a salvarci la vita. Lui, avendo una paura tremenda della guerra, allo sbarco degli americani si era spostato da Roma sino alla nostra zona. Conosceva bene il tedesco, che parlava come noi parlavamo l’italiano. Allora domandò al comandante tedesco che cosa avesse intenzione di farci. Quest’ultimo rispose che i suoi soldati avrebbero bruciato la stalla con dentro i vecchi, le donne e i bambini, e avrebbero impiccato alla quercia i cinque partigiani. In quanto a noi ragazzi, aveva deciso che saremmo andati a lavorare in Germania. Alchè, il figlio del procuratore del Re disse: «Guardi, io abito in questa zona da circa due mesi. Le garantisco che qui vive solo brava gente che lavora tanto. Se hanno aiutato i partigiani, lo hanno fatto perché costretti. Come voi, i partigiani dovevano essere armati e avrebbero potuto fare loro del male.»
I tedeschi si consultarono. Il comandante tedesco si preparò per parlarci e il figlio del procuratore del Re ci raccomandò di dire sempre di sì.
«Badate» ci disse l’interprete del comandante tedesco, «dovevamo impiccare quei cinque, portare voi in Germania e bruciare tutto. Questo non lo facciamo più perché ho capito che siete brava gente. Dovete però prometterci che, qualora i partigiani tornassero, manderete qualcuno ad avvisarci.»
Ci ricattavano in questo modo, i tedeschi. Rispondemmo comunque di sì, nella speranza che non uccidessero nessuno. Ma non finì lì. Dalla casa di mio cognato, i tedeschi portarono in cortile la tavola da pranzo e la posizionarono vicino alla quercia. Poi presero mio cognato e, dandogli dei pugni in faccia, cominciarono a domandargli ripetutamente se fosse un partigiano. Poi lo fecero sdraiare e cominciarono a picchiarlo. Un soldato teneva stretto i piedi e un altro la testa. Lui, poveretto, rispondeva che no, non era un partigiano, ma loro continuarono lo stesso a picchiarlo con mani e bastoni. E quelli che picchiavano e che rastrellavano, non erano tutti tedeschi. Tra di loro vi erano anche italiani, i nostri fascisti, coi bastoni. Erano loro che guidavano i rastrellamenti. Fecero così con tutti e cinque quelli che avrebbero dovuto impiccare. E se qualcuno non riusciva a scendere dal tavolo alla fine dell’interrogatorio, lo buttavano giù per terra, come fosse stato un maiale.
Dopo fecero uscire anche noi ragazzini e cominciarono a fare altrettanto. Volevano che dicessimo che eravamo partigiani, così avrebbero potuto ammazzarci tutti. Tra di noi c’era anche Erio, il figlio di mia sorella maggiore. Aveva più o meno la mia età, ma da piccolo aveva avuto la poliomielite e la sua faccia era deformata. I suoi genitori gli avevano fatto fare solo la prima elementare perché dicevano che non era normale, anche se per me era più intelligente di tanti altri. Lui ai tedeschi rispose con freddezza, soltanto con «sì» e «no». Non disse nient’altro e forse per questo, i soldati pensarono che li stesse prendendo in giro e lo picchiarono ancora più forte. Quando ebbero finito, la sua faccia era una maschera di sangue e gli erano caduti due denti.
Io, di tutti, fui il più fortunato. Avevo studiato un po’ di più degli altri e parlavo italiano. Al «Sei partigiano?» risposi di no. Pum! mi diedero un pugno. Mi girai dall’altra parte e Pum! mi arrivò un altro pugno. I colpi erano così forti che pensai che la mia testa si sarebbe spaccata come un cocomero.
«Dove sono i partigiani» mi chiesero.
«Non lo so» risposi.
«Hai sentito passare i partigiani, questa notte?» domandarono.
«Io questa notte ho sentito del rumore» risposi «però avevo paura e sono rimasto a letto. Non ho visto se erano i partigiani, ma ho sentito del rumore e i cani abbaiavano.»
Lo dissi perché tanto quelle erano cose che sapevano già. Mi diedero un altro paio di pugni e poi smisero.
Quando ebbero finito, ci avviammo tutti per l’unica via che c’era per tornare a casa. Era una strada che ai due lati della carreggiata aveva piante e siepi: da una parte c’erano i campi e le case, e dall’altra gli argini del bosco. Ci accorgemmo che a entrambi i lati della via c’erano soldati tedeschi, uno a circa dieci metri dall’altro, con i mitra spianati. Un momento dopo sentimmo: «Alt! Alt! Alt!». Restammo immobili, lì in mezzo alla strada, per dieci minuti. Le donne e i bambini cominciarono a piangere. Alcune mamme dicevano, con la voce rotta, «Adesso ci fanno come in quel posto». Poco tempo prima, in un altro paese, era successo che dopo un rastrellamento, i tedeschi avevano detto alle persone di andare a casa e poi le avevano mitragliate tutte. Un paio di persone svennero. In quel momento, se si pensava a quel fatto lì, era davvero facile svenire. Aspettammo ancora e finalmente uno dei tedeschi disse «Potete andare» e ognuno tornò alla propria casa.
La mattina del giorno dopo, verso le sei del mattino, i tedeschi tornarono. In seguito, imparammo che erano passati anche dove erano stati i partigiani e il tedesco. Ci domandarono se avessimo bisogno del dottore. Nonostante le croste e il dolore, rispondemmo di no e finì così. In realtà erano venuti a controllare che non ci fossero i partigiani.
Non tutti i tedeschi erano così crudeli e cattivi. Una volta, alcuni di loro vennero a casa nostra a cercare da mangiare. Trovarono una sfornata di pane fresco e una vescica piena di strutto. Uno di loro non allontanava lo sguardo da mia nipote Anna, la figlia di mia sorella. Aveva i capelli ondulati e biondi, sembrava un angelo. All’epoca aveva sette anni ed era di una bellezza rara. A un certo punto gli occhi del soldato si riempirono di lacrime.
«Anche io avere una bimba così» disse, «io non so mica se la potrò rivedere.»
Poi tirò fuori cento lire. C’era una tale miseria che noi, quella banconota grande e grossa, non l’avevamo neanche mai vista perché in quel periodo di soldi ce n’erano pochi. E in quegli anni, con cento lire, si comprava un paio di buoi, erano soldi! A mia sorella vennero le lacrime agli occhi dall’emozione. Non era abituata ad avere dei soldi in casa e decise quindi di metterli in una scatola di lamiera che nascose fra i coppi e i listelli di legno del soffitto della camera. La sfortuna volle che purtroppo quei coppi erano rotti, e a guerra finita, quando andò a recuperarla, si rese conto che la scatola era bagnata e che i soldi erano marciti.
I primi giorni del febbraio del 1945 mi rastrellarono mentre stavo giocando a carte nella stalla. Presero anche mio fratello, mio cognato e altre persone. Ciò che ricordo è il freddo tremendo di quell’inverno. Ci portarono fino a Pavullo, dove si trovava un comandante fascista che era una bestia. Fu lui che torturò anche Corrado Ori4 dopo il combattimento di Gombola. Ci interrogarono e anche in quell’occasione ci schiaffeggiarono: ancora una volta volevano che dicessimo di essere partigiani e che rivelassimo dove fossero gli altri ribelli.
La sera eravamo convinti di poter andare a casa e invece non fu così. Al comando «Raus! Fuori!» ci fecero incolonnare e poi, con due tedeschi davanti e due di dietro, camminammo fino al Panaro. Nevicava, pioveva e c’era un freddo cane! Eravamo a piedi ed eravamo anche mezzi svestiti perché quando ci avevano prelevato da casa non ci avevano dato tempo per prepararci al viaggio. Per fortuna mia sorella aveva fatto in tempo a darmi una piccola mantellina che aveva fatto a mano. Attraversato il ponte di Samone5, passammo per Montese e andammo fino a Maserno, dove finalmente ci fermammo e i tedeschi ci divisero in tre case. Nella mia eravamo in trenta e dormivamo in un unico granaio al piano alto di una casa abitata da una famiglia che, come scoprii poco tempo dopo, era in contatto coi partigiani. Avevano aperto due balle di paglia, per terra, e dormivamo lì, senza riscaldamento e niente.
I tedeschi ci facevano lavorare sia di giorno che di notte. Andavamo a scavare le trincee in cima al Monte Belvedere. Chi l’avrebbe mai detto che dall’altra parte della Linea Gotica, tra le file dei partigiani di Armando e dei soldati americani, si trovava anche il mio amico Cosimo Vandelli6! Una volta ci fecero persino trainare su, in mezzo al bosco, con un metro di neve, anche un compressore. Ma di giorno, quando non c’era da lavorare, tagliare la legna o cose simili, potevamo anche riposarci. Allora cominciammo a pensare a come scappare. Mio fratello Luigi, che allora aveva diciannove anni, era con un’altra squadra e voleva scappare assieme a me. Chiese al comandante di metterci nella stessa squadra, ma chissà, forse lui mangiò la foglia e non ce lo permise. Allora dissi a Luigi: «Se riesci a scappare, scappa. Se capita a me, lo faccio io».
La sera i tedeschi bevevano fino a ubriacarsi. Una notte, mio fratello, mio cognato, il fratello di mio cognato e due vicini di casa si procurarono due bottiglie di vino. Le diedero ai tedeschi di guardia, che si ubriacarono e loro riuscirono a scappare. La mattina dopo, i soldati ci radunarono in una vecchia casa che era stata trasformata in un ospedale da campo. Il comandante ci disse: «Questa notte sono scappati in cinque e adesso noi fuciliamo cinque di voi».
Io ero sicuro di essere tra quelli che avrebbero fucilato, ma non avevo paura: eravamo abituati alla violenza dei tedeschi e dei fascisti. Fortunatamente, anche quella volta non fecero niente.
Tre giorni dopo, il tredicesimo giorno in mano ai tedeschi, riuscii a fuggire anche io assieme un uomo di circa sessant’anni col quale avevo fatto amicizia: lui era stato rastrellato in zona Giardini assieme al figlio, che si chiamava Renzo come me. Suo figlio, però, l’avevano portato a Salto, nel comune di Montese. Infatti, quando fu ora mi disse: «Ti chiami come mio figlio, faccio finta di scappare con lui.»
Se riuscimmo a fuggire fu grazie ai figli della famiglia che viveva nella nostra casa. Loro erano gli stessi che, come scoprii, avevano aiutato anche mio fratello. Scappammo con uno dei due, che ci fece da accompagnatore. A un certo punto dovevamo attraversare una strada, ma proprio in quel momento stava passando una colonna di persone. Non si riusciva a capire se fossero tedeschi o partigiani, così ci buttammo giù nel fosso. L’acqua era gelida, era acqua di neve. Restammo immersi fino al collo per cinque, forse dieci minuti. Quando le ombre furono passate e non le vedemmo più, uscimmo dall’acqua e attraversammo la strada.
Vicino al Panaro, in direzione di Sassoguidano, entrammo in una casa vecchia e abbandonata, che doveva essere un crocevia di passaggio dei partigiani poiché vi era un fuoco acceso. Allora l’accompagnatore mi disse: «Io devo andare via. Devo essere a casa domani mattina perché se i tedeschi non mi vedono, vorranno sapere dove sono stato. Fra poco arriva la persona che ha aiutato il gruppo di tuo fratello.» E così fu. Arrivò un uomo.
«Siete voi?» chiese.
«Sì, siamo noi» risposi io. Notai che aveva un brutto raffreddore.
Poco dopo disse: «Avrei dovuto portarvi io di là dal fiume. Ma non ce la faccio, ho preso una bronchite nei giorni scorsi quando ho aiutato un altro gruppo. Vado a chiamare un amico che lo farà al posto mio.»
Arrivò un altro uomo sulla sessantina che, giunti sull’argine del Panaro, chiese: «Chi monta per primo in spalla?»
«A mount sò me7» risposi io.
«Vi spiego una cosa» ci disse prima di entrare in acqua, «Io ora vi porto di là, però mi dovete promettere che non aprite gli occhi. Perché se li aprite quando siamo nell’acqua, andiamo giù tutti.»
E infatti, un bel momento, era un po’ che ero in mezzo all’acqua, pensai: «voglio vedere dove sono.»
Non appena aprii gli occhi lui se ne accorse e disse:
«Chiudi! Chiudi gli occhi! Altrimenti affondiamo tutti e due!»
A me l’acqua arrivava soltanto fin sopra alle spalle; a lui, invece, arrivava fin sopra al collo. Mi portò dall’altra parte e poi fece lo stesso con l’uomo che era con me. Alla fine, quando fu il momento di salutarci, gli domandammo quanti soldi dovesse avere. Io in tasca avevo centotrenta lire perché i tedeschi ci pagavano. Lavorare con loro era come lavorare per la Todt, però noi eravamo stati obbligati a farlo. Quei soldi avrei voluto portarli a casa perché sapevo che ne avevamo un gran bisogno, ma poi pensai
«Povero diavolo, ci ha fatto passare il Panaro.»
L’uomo disse ancora una volta di non volere niente, ma noi gli lasciammo comunque cento lire a testa. Ci avviammo per la strada che ci aveva indicato. Avevo una fame… al mio amico dissi: «A gò na fam c’av magnarev di cióld8».
Perché i tedeschi ci davano da mangiare soltanto una volta al giorno, a mezzogiorno, una scodella di lenticchie.
Ci trovammo di fronte a tre case. Davanti a una di esse c’erano una signora e suo marito. Il mio amico, dopo averli salutati, chiese:
«Signora, non ha mica un pezzo di pane per questo ragazzo? Me ripieg9, ma lui ha una tale fame…».
Allora lei rispose: « Sì, sì che ce l’ho. Qualche crostino di pane… ho del brodo, vi faccio una zuppa.»
Il brodo di francesina che ci preparò l’ho in mente ogni volta che mangio. Quella fu la zuppa più buona che io abbia mai mangiato.
Il marito ci accompagnò per un tratto di strada. Sotto Sassoguidano si vedevano le mitraglie della contraerea che sparavano a Pippo e agli apparecchi americani che venivano a bombardare le truppe tedesche. Per non farci vedere passammo sotto l’argine. Arrivammo in una casa in cui mio fratello, prima della guerra, andava a ballare: eravamo a una quindicina di chilometri da casa. Lì abitavano tre sue amiche che ci dissero che anche lui aveva fatto quel percorso. Dopo averci dato da mangiare, una di loro salì in cima alla strada e quando vide che era libera, ci fece segno di attraversare.
Scendemmo fino a Benedello. Era venuto buio, pioveva e nevicava sempre ed eravamo bagnati fradici. Decidemmo di rifugiarci in una stalla, ma quando entrammo notai che era stata data alle fiamme e rimanevano soltanto le pareti.
«Ragasél, ragasél» disse il mio amico, «del fieno!»
In un angolo, infatti, c’era un mucchio di fieno buono. Ci entrammo dentro. Eravamo felici perché finalmente avremmo potuto asciugarci un po’. Però, dopo circa dieci minuti, notammo che non riuscivamo a scaldarci. I nostri denti battevano dal freddo. Il mio amico disse:
«Ragasèl, sai una cosa? Se ci alziamo ora, andiamo via con le nostre gambe. Ma se aspettiamo domani mattina, sarà qualcun altro a portarci fuori.»
Allora tornammo per strada. Andammo a finire in un bosco dove vagammo per tutta la notte alla ricerca di una casa, una stalla, un posto in cui poterci rifugiare. Non trovammo niente.
Il mattino successivo vedemmo il campanile di Coscogno. A Ospitaletto, ci ritrovammo in cima a una collina: vedevo Riccò e anche casa mia. Decisi però di aspettare il buio per muovermi, perché sapevo che lì intorno vi era una spia che avvisava i tedeschi e i fascisti.
Mia madre non credeva ai propri occhi. Mio fratello Luigi, quando era tornato a casa, le aveva detto che non ero riuscito a scappare assieme a lui e lei s’era fatta l’idea che i tedeschi mi avessero ucciso. Mia sorella riempì un catino di acqua calda e mi fecero fare il bagno nella stalla. Poi mi prepararono da mangiare. Mentre mangiavo, videro che continuavo a grattarmi. Allora scaldarono altra acqua e mi feci un altro bagno. Il giorno dopo, al mio risveglio, mi trovai addosso altri pidocchi. Soltanto pochi giorni fa, mio nipote, che era presente quella sera, mi ha detto: «Mi viene sempre in mente quando hai fatto il bagno nella stalla e c’era quello strato di pidocchi che galleggiava nel catino…»
In un altro rastrellamento, io ed Erio riuscimmo a scappare in tempo per non farci prendere. Finimmo sotto la via Giardini, in zona Montagnana, a casa di un contadino. Lì trovammo anche Emilio, il figlio renitente, e un altro suo amico, Otello, che possedeva una pistola e che forse era collegato ai partigiani. Calato il sole, io ed Erio volevamo tornare a casa, ma il contadino ci fece cambiare idea, dopotutto avremmo dovuto attraversare il fiume. Alla fine passammo la nottata in un rifugio a pochi metri dalla casa del contadino, assieme agli altri due ragazzi.
Al mattino, alzammo la botola: si sentivano i crepitii degli spari, ma lì dove eravamo noi non c’era nessuno. Allora dissi a mio nipote: «Erio, andiamo a casa?» E così facemmo. Emilio e Otello richiusero la botola e rimasero lì. Dopo un po’ di strada, ci guardammo indietro per vedere che non ci fosse nessuno. Vidi che i tedeschi avevano già superato la casa e il rifugio in cui avevamo passato la notte e che per fortuna non era successo niente.
«Si sono salvati» pensai.
I tedeschi, però, quando facevano i rastrellamenti mandavano sempre avanti una vedetta e ne lasciavano sempre un’altra dietro di loro. Questo consentiva loro di non essere sorpresi alle spalle. Emilio e Otello, non sentendo più alcun rumore, pensarono che tutti i tedeschi se ne fossero andati e una vedetta sparò loro non appena aprirono la botola. Lì ferì entrambi: quello messo peggio era Emilio, i cui genitori avevano assistito alla scena dalla finestra di casa loro. Allora i tedeschi obbligarono Otello a caricare il compagno sulle proprie spalle. Scesero fino al fiume, dove trovarono un biroccio. Fecero sdraiare sopra Emilio e Otello cominciò a trainare. Arrivarono a Maranello, dove volevano fucilarli. Il Podestà però non diede il permesso, così si spostarono a Spezzano. A ridosso di un fosso, Otello scavò le buche per entrambi. Emilio, nel frattempo, diceva:
«Dai, fai presto così la finiamo.»
Lì, si dice che li abbiano seppelliti che non erano ancora morti: ecco come erano i tedeschi e i fascisti.
Lavorai anche con le brigate partigiane. Mi facevano portare gli ordini. Passai tante volte anche in mezzo ai soldati tedeschi, che non mi fermavano perché dimostravo meno anni di quanti in realtà ne avessi. Avevo un tale coraggio… non so come facessi.
Feci anche da vedetta, perché quello era un periodo in cui i tedeschi facevano rastrellamenti di continuo, e i partigiani, quando si dovevano spostare da una zona all’altra, magari per prendere dei rifornimenti, avevano bisogno che qualcuno li aiutasse.
Una volta mi diedero un pezzo di stoffa rosso e uno bianco, e mi incaricarono di andare su una collina.
«Te vai là in cima» dissero, «e quando sei là, se vedi i tedeschi ti soffi il naso con lo straccio rosso. Se vedi che la zona è libera utilizzi quello bianco.»
Loro, dalle loro posizioni, mi guardavano con il binocolo in attesa di sapere se passare oppure no.
Un’altra volta, stavo tornando a casa dopo aver partecipato alla messa alla chiesa di Puianello. Passai davanti al caseificio. Lì, vidi dei partigiani. Dissero a me e a un altro ragazzo:
«Ragasèl, dove abitate voi?»
Rispondemmo. Dissero che eravamo di strada.
«Venite con noi, che andiamo a prendere del formaggio da portare a Montefiorino.»
Caricammo le forme su due birrocci trainati dai buoi e partimmo, loro, i partigiani, davanti e dietro di noi a sorvegliare la zona con i mitra spianati. Passarono ad avvertire le nostre famiglie che li avremmo aiutati fino alla Giardini, ma che poi saremmo tornati indietro.
Arrivati vicino alla destinazione, ci accorgemmo che c’era un gruppo di nazifascisti.
«Ragasèl, ragasèl! Portate i buoi in mezzo al furmintòun!10»
E così ci nascondemmo nel granoturco. I partigiani rimasero accovacciati davanti a noi, riparati da un argine, così che se i tedeschi ci fossero venuti incontro ci avrebbero difeso. E lì, aspettammo. Per fortuna, i tedeschi, invece di venire verso di noi, cambiarono direzione.
Passato mezzogiorno, mi era venuta una gran fame.
«Ho fame» dissi all’altro ragazzo.
Uno dei partigiani mi sentì e allora prese una delle forme e ci schiantò sopra un grosso sasso. Cominciai a mangiare il formaggio come se fosse pane; non ne ho mai mangiato così tanto in tutta la mia vita. Per sicurezza rimanemmo lì ancora un altro po’. Poi uno dei partigiani uscì dall’argine e andò a controllare la strada. E così attraversammo la Giardini. Più avanti incontrammo altri partigiani. Consegnammo i birrocci e le forme, e poi tornammo a casa contenti perché c’eravamo tolti di dosso la fame e tanto ci bastava. Quello di una volta era un mondo diverso.
Poi venne il giorno della liberazione. Non so mica descrivere la mia felicità. Eravamo tutti in strada. C’erano le brigate partigiane che andavano giù per la via Giardini, in direzione di Modena.
«Armando, Armando, cosa importa se si muore, questo è il grido del valore…» cantavano, «… I ribelli, i ribelli…cosa importa se si muore…»
Eppure, quando penso al mondo in cui viviamo oggi mi cascano le braccia. Fino a poco tempo fa mi prendevo cura del verde del parchetto che si trova accanto a casa mia. Un giorno c’era un gruppo di ragazzi e sentii che uno di loro diceva:
«Io sono fascista! Io sono fascista!».
Allora chiesi loro: «Sapete cosa vuol dire essere fascista?»
Risposero di no. Glielo spiegai io, che quando andavo a scuola c’erano i balilla e le piccole italiane. All’inaugurazione della strada che va da Castelvetro a Riccò venne il Duce in persona. Io ero tra i bambini che non avevano il vestito da Balilla. Non me lo potevo permettere. Allora le maestre dovettero andare in prestito agli altri paesi vicini. Tutto questo soltanto per applaudire il Duce.
Ci sono delle persone che queste cose non le capiscono mica. Ma la maggioranza credo che stia cominciando a capirle. Si sente dire che la Resistenza la fecero tutti e che è di tutti. Volevano paragonarla al fascismo, ma non è mica così. Una parte, i più vecchi, il nocciolo duro, erano socialisti. Ma tanti, la maggior parte dei partigiani, era comunista. Perché dalla rivoluzione che era scoppiata si sperava che potesse nascere un mondo migliore. Anche io sono stato comunista. Non mi vergogno a dirlo, ne sono orgoglioso. Ora sappiamo che all’epoca in Russia vi era una dittatura, ma allora non lo sapeva mica nessuno.
Ora ti parlo di mio zio, che mi fece da papà quando mio padre Guido morì. La sua famiglia lavorava un podere a San Venanzio da più di cento anni. Avevano tanta frutta e tante bestie. Il padrone, che era di Modena, non andava mai a controllare; era mio zio che teneva dietro alla contabilità e che quando era ora gli portava il guadagno.
Mio zio era un uomo rispettato da tutti, una persona autoritaria, ma nel giusto.
Era comunista, e nonostante il parroco del paese questo lo sapesse, era a lui che si rivolgeva quando aveva bisogno di contadini per lavorare i poderi di proprietà della Chiesa.
Io, per mio zio, badavo alle bestie e raccoglievo le ghiande con cui si faceva la farina per i buoi e i maiali. A volte tornavo a casa a tardo pomeriggio, altre volte dormivo là. Alla sera, quando faceva freddo, mi metteva il pret11 con le braci nel letto, per scaldarmi. E poi lui, che era sempre l’ultimo ad andare a dormire, mi veniva a coprire, come se fossi suo figlio.
Mi chiamava Barbaun12, anche se di barba io ne ho sempre avuta poca.
Dopo la caduta del Fascismo cominciò ad aiutare i militari sbandati: dava loro cibo e vestiti anonimi in cambio delle loro divise, le quali venivano portate da suo figlio, il partigiano Plucco13, su in montagna. Alcuni degli sbandati ringraziavano e tornavano per la propria strada nel tentativo di raggiungere la famiglia; altri decidevano invece di andare con i partigiani.
Quando una spia svelò ai fascisti ciò che mio zio faceva, diversi soldati tedeschi circondarono il podere. Fecero uscire tutti e svuotarono l’abitazione: nove carri di roba in totale. Dopodiché caricarono su una camionetta mio zio, assieme a sua moglie e i loro quattro figli, il fidanzato di una delle figlie, e Gino, il fratellastro. Risparmiarono soltanto i due anziani, che avevano più di ottant’anni. Ma non li lasciarono mica ritornare in casa: posizionarono uno dei materassi sotto a un fico e lì sopra li sbatterono prima di andarsene.
Mio nipote, Plucco, in quel momento assisteva alla scena da un punto panoramico poco lontano. Era assieme ad altri due partigiani ed erano tutti e tre armati. Voleva andare ad aiutare la propria famiglia e gli altri due dovettero bloccarlo: erano soltanto in tre e avrebbero rischiato di fare uccidere tutti.
Mentre la camionetta tedesca attraversava il ponte di barche, sul fiume Po, un apparecchio americano scese in picchiata e cominciò a mitragliare. Nella confusione, qualcuno dei prigionieri riuscì a scappare. I tedeschi recuperarono solamente mio zio, sua figlia, il moroso di sua figlia e il fratellastro. Vennero tutti e quattro deportati in Germania, dove mio zio venne internato nel campo di concentramento di Buchenwald e a Dachau. Lì rimase due anni. Raccontava che i prigionieri che non potevano lavorare li mettevano a pelare le patate. Quando sapevano di non essere visti, ne mangiavano qualche scarto. Una volta, uno di loro venne beccato e lo fucilarono sul posto.
Mi raccontò anche un altro episodio. Di sera, al campo, i nazisti erano soliti mangiare e ubriacarsi. Uno di loro vomitò a terra e si allontanò traballante. Un prigioniero, che evidentemente aveva assistito alla scena, raccolse con una mano il vomito e cercò di mangiarlo. Il nazista lo vide e lo falciò col mitra.
Quando lo presero da casa sua assieme alla famiglia, mio zio era ottantadue chili. Venne a casa dopo la fine della guerra che ne pesava trentotto. Però si salvò, e come lui, anche gli altri con cui era stato deportato.
La spia era nota in paese. Dopo la fine della guerra, forse a causa dei sensi di colpa, si presentò alla porta della casa di mio zio deciso a scusarsi.
«Guardi, mi deve perdonare» gli disse, «Io mi scuso per il male che ho fatto. Se vuole, la posso aiutare».
Come ho già detto, prima di portarlo in Germania i tedeschi e i fascisti gli avevano portato via ogni cosa. In quel periodo lavorava con le bestie che il Comitato di Liberazione Nazionale gli aveva dato. Allora lui rispose:
«Io da te non voglio niente. Se volessi qualcosa, mi prenderei la tua pelle.»
Però mio zio era un uomo buono e la questione finì lì.
Un’ultima cosa voglio dire. Molti dicono che i partigiani erano persone che volevano andare in montagna per sparare e uccidere. Non è mica vero. Dopo l’8 settembre 1943, ai militari fu detto che era permesso loro di tornare a casa. Quando i fascisti si organizzarono con la cosiddetta Repubblica di Salò, cominciarono a cercare quei soldati di casa in casa. I più fortunati furono spediti a lavorare in Germania. Gli altri vennero torturati e uccisi.
Molta gente, anche se magari non era d’accordo con le idee principalmente socialiste e comuniste dei partigiani, dava comunque appoggio, cibo e aiuto. Non faceva la spia. Questo perché si pensava che, con i partigiani, la guerra sarebbe finita prima. Tutte le famiglie avevano qualcuno che era al fronte. A casa c’erano sole donne, ragazzi e bambini, che di certo non potevano lavorare.
Vicino a casa mia abitava una famiglia composta da marito, moglie e due anziani. Il marito era via e i tre a casa non potevano lavorare il podere. Lui, in tempi di guerra, prima dell’Armistizio, era stanziato in un isola greca. Fu uno dei tanti soldati italiani che si rifiutarono di arrendersi ai tedeschi14 e venne fucilato. Aveva ventiquattro anni e rimase là. Si chiamava Carlo, me lo ricordo bene.
Ricordo che il 23 febbraio del 194515 gli americani bombardarono Villa Martuzzi, in frazione di Campiglio e poco distante da Vignola. Quel bombardamento riportò alla luce i corpi di diciassette persone, tutti civili16. Due delle vittime, delle ragazze, le trovarono con dei bastoni infilati nei genitali. Ecco cosa facevano i tedeschi e i fascisti. I partigiani nacquero anche come risposta a questo.
Quando ero piccolo c’era una miseria che faceva scintille. Per fortuna abitavo in una zona in cui le persone erano gentili e se qualcuno aveva bisogno lo si aiutava. Eravamo tutti per uno e uno per tutti. Sono nato a Riccò di Serramazzoni. La mia casa era poco prima di Pazzano e per andare a scuola dovevo fare cinque chilometri a piedi ogni giorno. Ci impiegavo più di un’ora. Io partivo, dall’ultima casa del paese, e passando davanti alle altre casa il gruppo diventava sempre più numeroso. Arrivavamo a scuola che eravamo una trentina. Al ritorno succedeva il contrario.
C’era miseria, ma eravamo felici. Quando ne avevo la possibilità, andavo ad aiutare le altre famiglie, che in cambio di un po’ di lavoro mi davano qualcosa da mangiare. Nel nostro cortile abitavano i Franchini. La loro era una famiglia grande e benestante, ma non avevano ragazzi. Mi chiamavano per badare le mucche e andare in campagna a mettere giù i legacci per il grano poiché, anche se ero piuttosto minuto, ero sveglio e in gamba.
Il nostro parroco Don Achille Vecchiati e mio padre Guido erano nati il medesimo giorno. Erano cresciuti assieme ed erano grandi amici. Allora, quando mio padre morì, Don Achille disse a mia madre: «Se hai un figlio a cui piace studiare, lo mandiamo in collegio». Accettai la proposta perché all’epoca ero garzone a Torre Maina, e lavorare in campagna era molto faticoso. Partii così per l’Osservanza, sulle colline sopra Bologna, dove rimasi per tre anni e mezzo. Quando la guerra arrivò, Bologna era sempre bersaglio dei bombardamenti e restare era pericoloso. Dovetti andarmene. A Villa Verucchio, in provincia di Rimini, cominciai a servire la messa. Quando tornai a casa, mi accorsi che alcune delle bambine con cui ero andato a scuola erano diventate delle belle ragazzine. Un giorno, fuori dalla chiesa, ero in loro compagnia. Il prete, vedendomi, si arrabbiò.
«Cosa ci fai lì in mezzo! Adesso te le do io!» mi disse.
Dopo quell’episodio smisi di andare a servire la messa, il che mi fa sorridere ancora oggi.
La mia famiglia era molto numerosa. In tutto eravamo in dieci tra fratelli. Due di loro morirono quando erano ancora molto piccoli. In quattro andarono via: i maschi come garzoni a casa di alcuni contadini, le femmine a lavorare a casa di alcuni signori, chi a Modena e chi a Bologna. Alla morte di mio padre avevamo abbandonato la terra in cui avevamo sempre vissuto poiché non potevamo più fare i contadini. Eravamo andati ad abitare assieme a Maria, mia sorella maggiore, che era già sposata e aveva sei figli. Il padrone aveva saputo della morte di mio padre e le aveva detto che potevamo stare da lei. Abitavamo in un ambiente che era sei metri per quattro. In un angolo della stanza c’era il camino. Poi c’era una panarina con sopra il tuler1 che usavamo anche come tavolo da pranzo, un vecchio cantaràn2 e un letto matrimoniale che aveva il materasso fatto da foglie di granoturco. In quell’ambiente abitavamo in sei, e a letto dormivamo tre dalla testa e tre dai piedi. La legna che adoperavamo per scaldarci la andavamo a prendere direttamente dal bosco. La vita allora era semplice e la porta della nostra casa era sempre aperta: la marlàtta3 che avevamo era frusta e non chiudeva bene. Una sera, ricordo, il letto cominciò a tremare e ci svegliammo pensando che ci fosse il terremoto. Non appena ci guardammo attorno notammo che eravamo circondati dalle pecore di una delle famiglie che abitavano lì vicino. Erano riuscite a entrare.
Dopo la notizia dell’Armistizio di Cassibile si pensava che la guerra fosse finita e molti soldati tornarono a casa. Un giorno vidi un campo a cui bisognava togliere l’erba. Al mattino successivo, dell’erba non c’era più nessuna traccia. Una cosa simile successe un’altra volta: notai un campo di grano pronto per essere lavorato e il giorno dopo il grano era stato tagliato. Capii cosa succedeva: gli uomini che erano tornati a casa dalla guerra, di giorno restavano nascosti nei rifugi che avevano costruito e di notte uscivano a dare una mano alle famiglie che abitavano nelle nostre zone. Perché, per colpa della guerra, a casa erano rimasti soltanto donne, bambini e persone anziane. Fu così che mi accorsi dell’esistenza di quelli che, poco tempo dopo, furono i partigiani.
Noi abitavamo in una zona che divideva i campi dall’inizio del bosco: lì, di notte, di partigiani ne passavano tanti. Venivano da Vignola, Castelvetro e Maranello, e attraversavano la Giardini per raggiungere le montagne, Montefiorino. Quando passavano, i cani abbaiavano. Col passare del tempo, sparirono tutti: i loro latrati erano così forti che allertavano i nazifascisti.
Gli americani, quando dovevano avanzare, mandavano avanti dell’avanguardia in borghese che, con una radiotrasmittente, comunicava loro le informazioni sui nazifascisti. Questi ultimi ne intercettarono una in un cortile in cui abitavano quattro famiglie, tra cui quella di mio cognato. La casa padronale era stata infatti affittata a un signore e a sua moglie che collaboravano con gli americani: lui riuscì a fuggire con la radiotrasmittente nel bosco prima dell’arrivo dei nazifascisti, ma lei non fece in tempo. Dopo averla interrogata, i tedeschi la portarono nel prato dietro la stalla di mio cognato, dove io e i miei amici giocavamo nel tempo libero, e in sedici la violentarono. Dopo quell’episodio sparirono e di loro non abbiamo più saputo niente.
Cominciarono così i rastrellamenti. A Riccò vi era stanziato un distaccamento di soldati tedeschi. Non erano tantissimi, ma erano lì con noi. Erano abituati ad andare di casa in casa a prendere da mangiare. Ricordo che quando trovavano lo strutto, ne mettevano sempre tanto sopra al pane e lo mangiavano con foga. Mi parevano dei maiali. Una domenica mattina d’estate, uno di loro si allontanò dal paese e incontrò due partigiani. Gli diedero l’altolà, lo disarmarono e poi, dopo aver fatto due fermate, lo portarono da mio cognato. Lì, lo fecero mangiare assieme a loro e poi lo fecero spogliare, perché le divise tedesche servivano ai partigiani per poter andare a prelevare cibo, fumo e armi dai comandi tedeschi. Dopo averlo fatto vestire in abiti borghesi, lo liberarono. Che non l’avessero mai fatto. Arrivarono più di mille tedeschi da Vignola, Maranello, Serramazzoni e Pavullo. Quella mattina, mia madre si era recata a messa e la fermarono mentre tornava a casa nel secondo posto in cui erano stati i partigiani e il tedesco. Lei si ribellò dicendo loro di avere noi a casa, e per fortuna non le fecero niente. Dopo un’ora l’intera zona era circondata. Eravamo circa una settantina in tutto e ci radunarono in prossimità delle tre case in cui si erano fermati i partigiani col prigioniero tedesco. Le donne e i bambini vennero rinchiusi dentro a una stalla. Noi ragazzi, che avevamo quindici, diciassette e diciotto anni al massimo, perché quelli più grandi erano tutti a militare, ci chiusero dentro la cucina di una delle case. Il tedesco che era stato lì coi partigiani disse ai suoi compagni: «Quelli lì partigiani». Per mio fratello, mio cognato e altri tre della zona, appesero dei cappi alla grossa quercia nel cortile.
Fu il figlio del procuratore del Re a salvarci la vita. Lui, avendo una paura tremenda della guerra, allo sbarco degli americani si era spostato da Roma sino alla nostra zona. Conosceva bene il tedesco, che parlava come noi parlavamo l’italiano. Allora domandò al comandante tedesco che cosa avesse intenzione di farci. Quest’ultimo rispose che i suoi soldati avrebbero bruciato la stalla con dentro i vecchi, le donne e i bambini, e avrebbero impiccato alla quercia i cinque partigiani. In quanto a noi ragazzi, aveva deciso che saremmo andati a lavorare in Germania. Alchè, il figlio del procuratore del Re disse: «Guardi, io abito in questa zona da circa due mesi. Le garantisco che qui vive solo brava gente che lavora tanto. Se hanno aiutato i partigiani, lo hanno fatto perché costretti. Come voi, i partigiani dovevano essere armati e avrebbero potuto fare loro del male.»
I tedeschi si consultarono. Il comandante tedesco si preparò per parlarci e il figlio del procuratore del Re ci raccomandò di dire sempre di sì.
«Badate» ci disse l’interprete del comandante tedesco, «dovevamo impiccare quei cinque, portare voi in Germania e bruciare tutto. Questo non lo facciamo più perché ho capito che siete brava gente. Dovete però prometterci che, qualora i partigiani tornassero, manderete qualcuno ad avvisarci.»
Ci ricattavano in questo modo, i tedeschi. Rispondemmo comunque di sì, nella speranza che non uccidessero nessuno. Ma non finì lì. Dalla casa di mio cognato, i tedeschi portarono in cortile la tavola da pranzo e la posizionarono vicino alla quercia. Poi presero mio cognato e, dandogli dei pugni in faccia, cominciarono a domandargli ripetutamente se fosse un partigiano. Poi lo fecero sdraiare e cominciarono a picchiarlo. Un soldato teneva stretto i piedi e un altro la testa. Lui, poveretto, rispondeva che no, non era un partigiano, ma loro continuarono lo stesso a picchiarlo con mani e bastoni. E quelli che picchiavano e che rastrellavano, non erano tutti tedeschi. Tra di loro vi erano anche italiani, i nostri fascisti, coi bastoni. Erano loro che guidavano i rastrellamenti. Fecero così con tutti e cinque quelli che avrebbero dovuto impiccare. E se qualcuno non riusciva a scendere dal tavolo alla fine dell’interrogatorio, lo buttavano giù per terra, come fosse stato un maiale.
Dopo fecero uscire anche noi ragazzini e cominciarono a fare altrettanto. Volevano che dicessimo che eravamo partigiani, così avrebbero potuto ammazzarci tutti. Tra di noi c’era anche Erio, il figlio di mia sorella maggiore. Aveva più o meno la mia età, ma da piccolo aveva avuto la poliomielite e la sua faccia era deformata. I suoi genitori gli avevano fatto fare solo la prima elementare perché dicevano che non era normale, anche se per me era più intelligente di tanti altri. Lui ai tedeschi rispose con freddezza, soltanto con «sì» e «no». Non disse nient’altro e forse per questo, i soldati pensarono che li stesse prendendo in giro e lo picchiarono ancora più forte. Quando ebbero finito, la sua faccia era una maschera di sangue e gli erano caduti due denti.
Io, di tutti, fui il più fortunato. Avevo studiato un po’ di più degli altri e parlavo italiano. Al «Sei partigiano?» risposi di no. Pum! mi diedero un pugno. Mi girai dall’altra parte e Pum! mi arrivò un altro pugno. I colpi erano così forti che pensai che la mia testa si sarebbe spaccata come un cocomero.
«Dove sono i partigiani» mi chiesero.
«Non lo so» risposi.
«Hai sentito passare i partigiani, questa notte?» domandarono.
«Io questa notte ho sentito del rumore» risposi «però avevo paura e sono rimasto a letto. Non ho visto se erano i partigiani, ma ho sentito del rumore e i cani abbaiavano.»
Lo dissi perché tanto quelle erano cose che sapevano già. Mi diedero un altro paio di pugni e poi smisero.
Quando ebbero finito, ci avviammo tutti per l’unica via che c’era per tornare a casa. Era una strada che ai due lati della carreggiata aveva piante e siepi: da una parte c’erano i campi e le case, e dall’altra gli argini del bosco. Ci accorgemmo che a entrambi i lati della via c’erano soldati tedeschi, uno a circa dieci metri dall’altro, con i mitra spianati. Un momento dopo sentimmo: «Alt! Alt! Alt!». Restammo immobili, lì in mezzo alla strada, per dieci minuti. Le donne e i bambini cominciarono a piangere. Alcune mamme dicevano, con la voce rotta, «Adesso ci fanno come in quel posto». Poco tempo prima, in un altro paese, era successo che dopo un rastrellamento, i tedeschi avevano detto alle persone di andare a casa e poi le avevano mitragliate tutte. Un paio di persone svennero. In quel momento, se si pensava a quel fatto lì, era davvero facile svenire. Aspettammo ancora e finalmente uno dei tedeschi disse «Potete andare» e ognuno tornò alla propria casa.
La mattina del giorno dopo, verso le sei del mattino, i tedeschi tornarono. In seguito, imparammo che erano passati anche dove erano stati i partigiani e il tedesco. Ci domandarono se avessimo bisogno del dottore. Nonostante le croste e il dolore, rispondemmo di no e finì così. In realtà erano venuti a controllare che non ci fossero i partigiani.
Non tutti i tedeschi erano così crudeli e cattivi. Una volta, alcuni di loro vennero a casa nostra a cercare da mangiare. Trovarono una sfornata di pane fresco e una vescica piena di strutto. Uno di loro non allontanava lo sguardo da mia nipote Anna, la figlia di mia sorella. Aveva i capelli ondulati e biondi, sembrava un angelo. All’epoca aveva sette anni ed era di una bellezza rara. A un certo punto gli occhi del soldato si riempirono di lacrime.
«Anche io avere una bimba così» disse, «io non so mica se la potrò rivedere.»
Poi tirò fuori cento lire. C’era una tale miseria che noi, quella banconota grande e grossa, non l’avevamo neanche mai vista perché in quel periodo di soldi ce n’erano pochi. E in quegli anni, con cento lire, si comprava un paio di buoi, erano soldi! A mia sorella vennero le lacrime agli occhi dall’emozione. Non era abituata ad avere dei soldi in casa e decise quindi di metterli in una scatola di lamiera che nascose fra i coppi e i listelli di legno del soffitto della camera. La sfortuna volle che purtroppo quei coppi erano rotti, e a guerra finita, quando andò a recuperarla, si rese conto che la scatola era bagnata e che i soldi erano marciti.
I primi giorni del febbraio del 1945 mi rastrellarono mentre stavo giocando a carte nella stalla. Presero anche mio fratello, mio cognato e altre persone. Ciò che ricordo è il freddo tremendo di quell’inverno. Ci portarono fino a Pavullo, dove si trovava un comandante fascista che era una bestia. Fu lui che torturò anche Corrado Ori4 dopo il combattimento di Gombola. Ci interrogarono e anche in quell’occasione ci schiaffeggiarono: ancora una volta volevano che dicessimo di essere partigiani e che rivelassimo dove fossero gli altri ribelli.
La sera eravamo convinti di poter andare a casa e invece non fu così. Al comando «Raus! Fuori!» ci fecero incolonnare e poi, con due tedeschi davanti e due di dietro, camminammo fino al Panaro. Nevicava, pioveva e c’era un freddo cane! Eravamo a piedi ed eravamo anche mezzi svestiti perché quando ci avevano prelevato da casa non ci avevano dato tempo per prepararci al viaggio. Per fortuna mia sorella aveva fatto in tempo a darmi una piccola mantellina che aveva fatto a mano. Attraversato il ponte di Samone5, passammo per Montese e andammo fino a Maserno, dove finalmente ci fermammo e i tedeschi ci divisero in tre case. Nella mia eravamo in trenta e dormivamo in un unico granaio al piano alto di una casa abitata da una famiglia che, come scoprii poco tempo dopo, era in contatto coi partigiani. Avevano aperto due balle di paglia, per terra, e dormivamo lì, senza riscaldamento e niente.
I tedeschi ci facevano lavorare sia di giorno che di notte. Andavamo a scavare le trincee in cima al Monte Belvedere. Chi l’avrebbe mai detto che dall’altra parte della Linea Gotica, tra le file dei partigiani di Armando e dei soldati americani, si trovava anche il mio amico Cosimo Vandelli6! Una volta ci fecero persino trainare su, in mezzo al bosco, con un metro di neve, anche un compressore. Ma di giorno, quando non c’era da lavorare, tagliare la legna o cose simili, potevamo anche riposarci. Allora cominciammo a pensare a come scappare. Mio fratello Luigi, che allora aveva diciannove anni, era con un’altra squadra e voleva scappare assieme a me. Chiese al comandante di metterci nella stessa squadra, ma chissà, forse lui mangiò la foglia e non ce lo permise. Allora dissi a Luigi: «Se riesci a scappare, scappa. Se capita a me, lo faccio io».
La sera i tedeschi bevevano fino a ubriacarsi. Una notte, mio fratello, mio cognato, il fratello di mio cognato e due vicini di casa si procurarono due bottiglie di vino. Le diedero ai tedeschi di guardia, che si ubriacarono e loro riuscirono a scappare. La mattina dopo, i soldati ci radunarono in una vecchia casa che era stata trasformata in un ospedale da campo. Il comandante ci disse: «Questa notte sono scappati in cinque e adesso noi fuciliamo cinque di voi».
Io ero sicuro di essere tra quelli che avrebbero fucilato, ma non avevo paura: eravamo abituati alla violenza dei tedeschi e dei fascisti. Fortunatamente, anche quella volta non fecero niente.
Tre giorni dopo, il tredicesimo giorno in mano ai tedeschi, riuscii a fuggire anche io assieme un uomo di circa sessant’anni col quale avevo fatto amicizia: lui era stato rastrellato in zona Giardini assieme al figlio, che si chiamava Renzo come me. Suo figlio, però, l’avevano portato a Salto, nel comune di Montese. Infatti, quando fu ora mi disse: «Ti chiami come mio figlio, faccio finta di scappare con lui.»
Se riuscimmo a fuggire fu grazie ai figli della famiglia che viveva nella nostra casa. Loro erano gli stessi che, come scoprii, avevano aiutato anche mio fratello. Scappammo con uno dei due, che ci fece da accompagnatore. A un certo punto dovevamo attraversare una strada, ma proprio in quel momento stava passando una colonna di persone. Non si riusciva a capire se fossero tedeschi o partigiani, così ci buttammo giù nel fosso. L’acqua era gelida, era acqua di neve. Restammo immersi fino al collo per cinque, forse dieci minuti. Quando le ombre furono passate e non le vedemmo più, uscimmo dall’acqua e attraversammo la strada.
Vicino al Panaro, in direzione di Sassoguidano, entrammo in una casa vecchia e abbandonata, che doveva essere un crocevia di passaggio dei partigiani poiché vi era un fuoco acceso. Allora l’accompagnatore mi disse: «Io devo andare via. Devo essere a casa domani mattina perché se i tedeschi non mi vedono, vorranno sapere dove sono stato. Fra poco arriva la persona che ha aiutato il gruppo di tuo fratello.» E così fu. Arrivò un uomo.
«Siete voi?» chiese.
«Sì, siamo noi» risposi io. Notai che aveva un brutto raffreddore.
Poco dopo disse: «Avrei dovuto portarvi io di là dal fiume. Ma non ce la faccio, ho preso una bronchite nei giorni scorsi quando ho aiutato un altro gruppo. Vado a chiamare un amico che lo farà al posto mio.»
Arrivò un altro uomo sulla sessantina che, giunti sull’argine del Panaro, chiese: «Chi monta per primo in spalla?»
«A mount sò me7» risposi io.
«Vi spiego una cosa» ci disse prima di entrare in acqua, «Io ora vi porto di là, però mi dovete promettere che non aprite gli occhi. Perché se li aprite quando siamo nell’acqua, andiamo giù tutti.»
E infatti, un bel momento, era un po’ che ero in mezzo all’acqua, pensai: «voglio vedere dove sono.»
Non appena aprii gli occhi lui se ne accorse e disse:
«Chiudi! Chiudi gli occhi! Altrimenti affondiamo tutti e due!»
A me l’acqua arrivava soltanto fin sopra alle spalle; a lui, invece, arrivava fin sopra al collo. Mi portò dall’altra parte e poi fece lo stesso con l’uomo che era con me. Alla fine, quando fu il momento di salutarci, gli domandammo quanti soldi dovesse avere. Io in tasca avevo centotrenta lire perché i tedeschi ci pagavano. Lavorare con loro era come lavorare per la Todt, però noi eravamo stati obbligati a farlo. Quei soldi avrei voluto portarli a casa perché sapevo che ne avevamo un gran bisogno, ma poi pensai
«Povero diavolo, ci ha fatto passare il Panaro.»
L’uomo disse ancora una volta di non volere niente, ma noi gli lasciammo comunque cento lire a testa. Ci avviammo per la strada che ci aveva indicato. Avevo una fame… al mio amico dissi: «A gò na fam c’av magnarev di cióld8».
Perché i tedeschi ci davano da mangiare soltanto una volta al giorno, a mezzogiorno, una scodella di lenticchie.
Ci trovammo di fronte a tre case. Davanti a una di esse c’erano una signora e suo marito. Il mio amico, dopo averli salutati, chiese:
«Signora, non ha mica un pezzo di pane per questo ragazzo? Me ripieg9, ma lui ha una tale fame…».
Allora lei rispose: « Sì, sì che ce l’ho. Qualche crostino di pane… ho del brodo, vi faccio una zuppa.»
Il brodo di francesina che ci preparò l’ho in mente ogni volta che mangio. Quella fu la zuppa più buona che io abbia mai mangiato.
Il marito ci accompagnò per un tratto di strada. Sotto Sassoguidano si vedevano le mitraglie della contraerea che sparavano a Pippo e agli apparecchi americani che venivano a bombardare le truppe tedesche. Per non farci vedere passammo sotto l’argine. Arrivammo in una casa in cui mio fratello, prima della guerra, andava a ballare: eravamo a una quindicina di chilometri da casa. Lì abitavano tre sue amiche che ci dissero che anche lui aveva fatto quel percorso. Dopo averci dato da mangiare, una di loro salì in cima alla strada e quando vide che era libera, ci fece segno di attraversare.
Scendemmo fino a Benedello. Era venuto buio, pioveva e nevicava sempre ed eravamo bagnati fradici. Decidemmo di rifugiarci in una stalla, ma quando entrammo notai che era stata data alle fiamme e rimanevano soltanto le pareti.
«Ragasél, ragasél» disse il mio amico, «del fieno!»
In un angolo, infatti, c’era un mucchio di fieno buono. Ci entrammo dentro. Eravamo felici perché finalmente avremmo potuto asciugarci un po’. Però, dopo circa dieci minuti, notammo che non riuscivamo a scaldarci. I nostri denti battevano dal freddo. Il mio amico disse:
«Ragasèl, sai una cosa? Se ci alziamo ora, andiamo via con le nostre gambe. Ma se aspettiamo domani mattina, sarà qualcun altro a portarci fuori.»
Allora tornammo per strada. Andammo a finire in un bosco dove vagammo per tutta la notte alla ricerca di una casa, una stalla, un posto in cui poterci rifugiare. Non trovammo niente.
Il mattino successivo vedemmo il campanile di Coscogno. A Ospitaletto, ci ritrovammo in cima a una collina: vedevo Riccò e anche casa mia. Decisi però di aspettare il buio per muovermi, perché sapevo che lì intorno vi era una spia che avvisava i tedeschi e i fascisti.
Mia madre non credeva ai propri occhi. Mio fratello Luigi, quando era tornato a casa, le aveva detto che non ero riuscito a scappare assieme a lui e lei s’era fatta l’idea che i tedeschi mi avessero ucciso. Mia sorella riempì un catino di acqua calda e mi fecero fare il bagno nella stalla. Poi mi prepararono da mangiare. Mentre mangiavo, videro che continuavo a grattarmi. Allora scaldarono altra acqua e mi feci un altro bagno. Il giorno dopo, al mio risveglio, mi trovai addosso altri pidocchi. Soltanto pochi giorni fa, mio nipote, che era presente quella sera, mi ha detto: «Mi viene sempre in mente quando hai fatto il bagno nella stalla e c’era quello strato di pidocchi che galleggiava nel catino…»
In un altro rastrellamento, io ed Erio riuscimmo a scappare in tempo per non farci prendere. Finimmo sotto la via Giardini, in zona Montagnana, a casa di un contadino. Lì trovammo anche Emilio, il figlio renitente, e un altro suo amico, Otello, che possedeva una pistola e che forse era collegato ai partigiani. Calato il sole, io ed Erio volevamo tornare a casa, ma il contadino ci fece cambiare idea, dopotutto avremmo dovuto attraversare il fiume. Alla fine passammo la nottata in un rifugio a pochi metri dalla casa del contadino, assieme agli altri due ragazzi.
Al mattino, alzammo la botola: si sentivano i crepitii degli spari, ma lì dove eravamo noi non c’era nessuno. Allora dissi a mio nipote: «Erio, andiamo a casa?» E così facemmo. Emilio e Otello richiusero la botola e rimasero lì. Dopo un po’ di strada, ci guardammo indietro per vedere che non ci fosse nessuno. Vidi che i tedeschi avevano già superato la casa e il rifugio in cui avevamo passato la notte e che per fortuna non era successo niente.
«Si sono salvati» pensai.
I tedeschi, però, quando facevano i rastrellamenti mandavano sempre avanti una vedetta e ne lasciavano sempre un’altra dietro di loro. Questo consentiva loro di non essere sorpresi alle spalle. Emilio e Otello, non sentendo più alcun rumore, pensarono che tutti i tedeschi se ne fossero andati e una vedetta sparò loro non appena aprirono la botola. Lì ferì entrambi: quello messo peggio era Emilio, i cui genitori avevano assistito alla scena dalla finestra di casa loro. Allora i tedeschi obbligarono Otello a caricare il compagno sulle proprie spalle. Scesero fino al fiume, dove trovarono un biroccio. Fecero sdraiare sopra Emilio e Otello cominciò a trainare. Arrivarono a Maranello, dove volevano fucilarli. Il Podestà però non diede il permesso, così si spostarono a Spezzano. A ridosso di un fosso, Otello scavò le buche per entrambi. Emilio, nel frattempo, diceva:
«Dai, fai presto così la finiamo.»
Lì, si dice che li abbiano seppelliti che non erano ancora morti: ecco come erano i tedeschi e i fascisti.
Lavorai anche con le brigate partigiane. Mi facevano portare gli ordini. Passai tante volte anche in mezzo ai soldati tedeschi, che non mi fermavano perché dimostravo meno anni di quanti in realtà ne avessi. Avevo un tale coraggio… non so come facessi.
Feci anche da vedetta, perché quello era un periodo in cui i tedeschi facevano rastrellamenti di continuo, e i partigiani, quando si dovevano spostare da una zona all’altra, magari per prendere dei rifornimenti, avevano bisogno che qualcuno li aiutasse.
Una volta mi diedero un pezzo di stoffa rosso e uno bianco, e mi incaricarono di andare su una collina.
«Te vai là in cima» dissero, «e quando sei là, se vedi i tedeschi ti soffi il naso con lo straccio rosso. Se vedi che la zona è libera utilizzi quello bianco.»
Loro, dalle loro posizioni, mi guardavano con il binocolo in attesa di sapere se passare oppure no.
Un’altra volta, stavo tornando a casa dopo aver partecipato alla messa alla chiesa di Puianello. Passai davanti al caseificio. Lì, vidi dei partigiani. Dissero a me e a un altro ragazzo:
«Ragasèl, dove abitate voi?»
Rispondemmo. Dissero che eravamo di strada.
«Venite con noi, che andiamo a prendere del formaggio da portare a Montefiorino.»
Caricammo le forme su due birrocci trainati dai buoi e partimmo, loro, i partigiani, davanti e dietro di noi a sorvegliare la zona con i mitra spianati. Passarono ad avvertire le nostre famiglie che li avremmo aiutati fino alla Giardini, ma che poi saremmo tornati indietro.
Arrivati vicino alla destinazione, ci accorgemmo che c’era un gruppo di nazifascisti.
«Ragasèl, ragasèl! Portate i buoi in mezzo al furmintòun!10»
E così ci nascondemmo nel granoturco. I partigiani rimasero accovacciati davanti a noi, riparati da un argine, così che se i tedeschi ci fossero venuti incontro ci avrebbero difeso. E lì, aspettammo. Per fortuna, i tedeschi, invece di venire verso di noi, cambiarono direzione.
Passato mezzogiorno, mi era venuta una gran fame.
«Ho fame» dissi all’altro ragazzo.
Uno dei partigiani mi sentì e allora prese una delle forme e ci schiantò sopra un grosso sasso. Cominciai a mangiare il formaggio come se fosse pane; non ne ho mai mangiato così tanto in tutta la mia vita. Per sicurezza rimanemmo lì ancora un altro po’. Poi uno dei partigiani uscì dall’argine e andò a controllare la strada. E così attraversammo la Giardini. Più avanti incontrammo altri partigiani. Consegnammo i birrocci e le forme, e poi tornammo a casa contenti perché c’eravamo tolti di dosso la fame e tanto ci bastava. Quello di una volta era un mondo diverso.
Poi venne il giorno della liberazione. Non so mica descrivere la mia felicità. Eravamo tutti in strada. C’erano le brigate partigiane che andavano giù per la via Giardini, in direzione di Modena.
«Armando, Armando, cosa importa se si muore, questo è il grido del valore…» cantavano, «… I ribelli, i ribelli…cosa importa se si muore…»
Eppure, quando penso al mondo in cui viviamo oggi mi cascano le braccia. Fino a poco tempo fa mi prendevo cura del verde del parchetto che si trova accanto a casa mia. Un giorno c’era un gruppo di ragazzi e sentii che uno di loro diceva:
«Io sono fascista! Io sono fascista!».
Allora chiesi loro: «Sapete cosa vuol dire essere fascista?»
Risposero di no. Glielo spiegai io, che quando andavo a scuola c’erano i balilla e le piccole italiane. All’inaugurazione della strada che va da Castelvetro a Riccò venne il Duce in persona. Io ero tra i bambini che non avevano il vestito da Balilla. Non me lo potevo permettere. Allora le maestre dovettero andare in prestito agli altri paesi vicini. Tutto questo soltanto per applaudire il Duce.
Ci sono delle persone che queste cose non le capiscono mica. Ma la maggioranza credo che stia cominciando a capirle. Si sente dire che la Resistenza la fecero tutti e che è di tutti. Volevano paragonarla al fascismo, ma non è mica così. Una parte, i più vecchi, il nocciolo duro, erano socialisti. Ma tanti, la maggior parte dei partigiani, era comunista. Perché dalla rivoluzione che era scoppiata si sperava che potesse nascere un mondo migliore. Anche io sono stato comunista. Non mi vergogno a dirlo, ne sono orgoglioso. Ora sappiamo che all’epoca in Russia vi era una dittatura, ma allora non lo sapeva mica nessuno.
Ora ti parlo di mio zio, che mi fece da papà quando mio padre Guido morì. La sua famiglia lavorava un podere a San Venanzio da più di cento anni. Avevano tanta frutta e tante bestie. Il padrone, che era di Modena, non andava mai a controllare; era mio zio che teneva dietro alla contabilità e che quando era ora gli portava il guadagno.
Mio zio era un uomo rispettato da tutti, una persona autoritaria, ma nel giusto.
Era comunista, e nonostante il parroco del paese questo lo sapesse, era a lui che si rivolgeva quando aveva bisogno di contadini per lavorare i poderi di proprietà della Chiesa.
Io, per mio zio, badavo alle bestie e raccoglievo le ghiande con cui si faceva la farina per i buoi e i maiali. A volte tornavo a casa a tardo pomeriggio, altre volte dormivo là. Alla sera, quando faceva freddo, mi metteva il pret11 con le braci nel letto, per scaldarmi. E poi lui, che era sempre l’ultimo ad andare a dormire, mi veniva a coprire, come se fossi suo figlio.
Mi chiamava Barbaun12, anche se di barba io ne ho sempre avuta poca.
Dopo la caduta del Fascismo cominciò ad aiutare i militari sbandati: dava loro cibo e vestiti anonimi in cambio delle loro divise, le quali venivano portate da suo figlio, il partigiano Plucco13, su in montagna. Alcuni degli sbandati ringraziavano e tornavano per la propria strada nel tentativo di raggiungere la famiglia; altri decidevano invece di andare con i partigiani.
Quando una spia svelò ai fascisti ciò che mio zio faceva, diversi soldati tedeschi circondarono il podere. Fecero uscire tutti e svuotarono l’abitazione: nove carri di roba in totale. Dopodiché caricarono su una camionetta mio zio, assieme a sua moglie e i loro quattro figli, il fidanzato di una delle figlie, e Gino, il fratellastro. Risparmiarono soltanto i due anziani, che avevano più di ottant’anni. Ma non li lasciarono mica ritornare in casa: posizionarono uno dei materassi sotto a un fico e lì sopra li sbatterono prima di andarsene.
Mio nipote, Plucco, in quel momento assisteva alla scena da un punto panoramico poco lontano. Era assieme ad altri due partigiani ed erano tutti e tre armati. Voleva andare ad aiutare la propria famiglia e gli altri due dovettero bloccarlo: erano soltanto in tre e avrebbero rischiato di fare uccidere tutti.
Mentre la camionetta tedesca attraversava il ponte di barche, sul fiume Po, un apparecchio americano scese in picchiata e cominciò a mitragliare. Nella confusione, qualcuno dei prigionieri riuscì a scappare. I tedeschi recuperarono solamente mio zio, sua figlia, il moroso di sua figlia e il fratellastro. Vennero tutti e quattro deportati in Germania, dove mio zio venne internato nel campo di concentramento di Buchenwald e a Dachau. Lì rimase due anni. Raccontava che i prigionieri che non potevano lavorare li mettevano a pelare le patate. Quando sapevano di non essere visti, ne mangiavano qualche scarto. Una volta, uno di loro venne beccato e lo fucilarono sul posto.
Mi raccontò anche un altro episodio. Di sera, al campo, i nazisti erano soliti mangiare e ubriacarsi. Uno di loro vomitò a terra e si allontanò traballante. Un prigioniero, che evidentemente aveva assistito alla scena, raccolse con una mano il vomito e cercò di mangiarlo. Il nazista lo vide e lo falciò col mitra.
Quando lo presero da casa sua assieme alla famiglia, mio zio era ottantadue chili. Venne a casa dopo la fine della guerra che ne pesava trentotto. Però si salvò, e come lui, anche gli altri con cui era stato deportato.
La spia era nota in paese. Dopo la fine della guerra, forse a causa dei sensi di colpa, si presentò alla porta della casa di mio zio deciso a scusarsi.
«Guardi, mi deve perdonare» gli disse, «Io mi scuso per il male che ho fatto. Se vuole, la posso aiutare».
Come ho già detto, prima di portarlo in Germania i tedeschi e i fascisti gli avevano portato via ogni cosa. In quel periodo lavorava con le bestie che il Comitato di Liberazione Nazionale gli aveva dato. Allora lui rispose:
«Io da te non voglio niente. Se volessi qualcosa, mi prenderei la tua pelle.»
Però mio zio era un uomo buono e la questione finì lì.
Un’ultima cosa voglio dire. Molti dicono che i partigiani erano persone che volevano andare in montagna per sparare e uccidere. Non è mica vero. Dopo l’8 settembre 1943, ai militari fu detto che era permesso loro di tornare a casa. Quando i fascisti si organizzarono con la cosiddetta Repubblica di Salò, cominciarono a cercare quei soldati di casa in casa. I più fortunati furono spediti a lavorare in Germania. Gli altri vennero torturati e uccisi.
Molta gente, anche se magari non era d’accordo con le idee principalmente socialiste e comuniste dei partigiani, dava comunque appoggio, cibo e aiuto. Non faceva la spia. Questo perché si pensava che, con i partigiani, la guerra sarebbe finita prima. Tutte le famiglie avevano qualcuno che era al fronte. A casa c’erano sole donne, ragazzi e bambini, che di certo non potevano lavorare.
Vicino a casa mia abitava una famiglia composta da marito, moglie e due anziani. Il marito era via e i tre a casa non potevano lavorare il podere. Lui, in tempi di guerra, prima dell’Armistizio, era stanziato in un isola greca. Fu uno dei tanti soldati italiani che si rifiutarono di arrendersi ai tedeschi14 e venne fucilato. Aveva ventiquattro anni e rimase là. Si chiamava Carlo, me lo ricordo bene.
Ricordo che il 23 febbraio del 194515 gli americani bombardarono Villa Martuzzi, in frazione di Campiglio e poco distante da Vignola. Quel bombardamento riportò alla luce i corpi di diciassette persone, tutti civili16. Due delle vittime, delle ragazze, le trovarono con dei bastoni infilati nei genitali. Ecco cosa facevano i tedeschi e i fascisti. I partigiani nacquero anche come risposta a questo.
«Tagliere, spianatoia su cui si impasta» in dialetto modenese.
Termine dialettale che indica un particolare cassettone in legno caratterizzato da un’apertura nella parte superiore.
Termine dialettale che indica una tipologia di serratura delle porte.
Corrado Ori, classe 1924, nome di battaglia “Barba”, comandante partigiano di Vignola e amico di Simonini Lorenzo. Durante il combattimento di Gombola, una piccola frazione nel Frignano, rimase ferito assieme ad altri quattro partigiani, che vennero freddati all’istante. Ori si salvò probabilmente poiché comandante partigiano. Portato all’ospedale di Pavullo, conobbe il partigiano Lamazzi Giorgio. Lì venne curato e poi torturato brutalmente. Da C. ORI, La mia vita: storia di un partigiano che ha lottato per la libertà, ms: «I tedeschi iniziarono con le torture: venivano il pomeriggio con due infermieri, mi mettevano su di un lettino, poi mi portavano in una camera vuota. Quando arrivavo nella camera trovavo un gruppo di sei tedeschi, e di questi uno era l’interprete. Cominciarono a interrogarmi per due ore al giorno, ma alle domande che mi facevano ebbi la forza di non rispondere. Allora ad ogni domanda che mi facevano erano pugni in faccia e per tutto il corpo; tutto questo durò per quattro giorni. Il quinto giorno cambiarono sistema e cominciarono con il mettermi gli spilli sotto le unghie. Ad ogni domanda mi spingevano di più gli spilli; io sopportavo il più possibile, fino al punto di perdere i sensi per il dolore. Quando riprendevo conoscenza cominciarono (sic) di nuovo. Questo durò per quindici giorni, poi smisero di torturarmi. Al ventesimo giorno io e l’altro partigiano vedemmo arrivare nella camera l’infermiere con il caffè-latte; mise la tazza sul comodino e cominciò a guardarci con uno strano sguardo. Capimmo subito che c’era qualcosa di strano, e così fu. Il ventesimo giorno […] vedemmo rientrare nella stanza il reggente fascista con due tedeschi […]. I tedeschi ci fecero ancora delle domande, ma nessuno di noi due rispose. Ad un certo punto il reggente fascista di Pavullo si rivolse verso l’altro partigiano e gli disse: “Non vuoi parlare? Te lo avevo detto di prendere la strada buona, ma tu hai preso la cattiva…” Poi si rivolse verso di me e mi disse: “anche tu meriti la stessa sorte”. Poi andarono via. Io e Giorgio, il partigiano ferito, ci guardammo, allungammo la mano e ci stringemmo forte senza dire una parola. Capimmo che era arrivata l’ora. Verso le 11 arrivarono due tedeschi e due fascisti con due barelle militari, su cui ci caricarono. Giorgio Lamazzi mi disse: “Corrado, siamo arrivati alla fine” e poi ci portarono fuori, in piazza, dove c’erano già i pali per l’impiccagione con la corda sopra le nostre teste. Ci guardammo di nuovo senza parole. La madre di Lamazzi dalla finestra della casa dove abitava vedeva tutto quello che stava succedendo. In quel momento sentimmo un urlo; con tutta la voce che aveva la mamma di Giorgio gridò: “Assassini, assassini!!!”. Dopo quelle parole si fermò tutto. Mezz’ora dopo ci riportarono all’ospedale. Giorgio ed io incrociamo di nuovo i nostri sguardi e Giorgio disse: “Corrado, si vede che non è la nostra ora”.»
D’origine ottocentesca, il ponte di Samone venne distrutto durante il secondo conflitto mondiale e ricostruito nel 1947. https://www.provincia.modena.it/comunicato-stampa/ponte-samone1-ricostruiti-gli-archi-crollati-rifatti-i-muri-in-pietra-apre-a-meta-settembre/, sito consultato il 15 aprile 2024.
La prossima testimonianza.
«Monto su io» in dialetto modenese.
«Ho così fame che mangerei dei chiodi» in dialetto modenese.
«Io ripiego, faccio senza» in dialetto modenese.
«Granoturco, mais» in dialetto modenese.
«Prete, scaldaletto» in dialetto modenese.
«Barbone» in dialetto modenese.
Ferrari Clicerio, classe 1924, nome di battaglia “Plucco”. Elenco nominativo dei partigiani dell’Emilia-Romagna, file Modena, redatto da M. Becchetti, M. Bellelli, E. Cavina, E. Cortesi, S. Groppelli, E. Guaraldi, S. Mantovani, L. Pastore e A. Perticone per conto del Comitato regionale per le celebrazioni del 60° anniversario della Resistenza, del rettorato dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, del Dipartimento di Discipline storiche, antropologiche e geografiche e grazie alla collaborazione dell’ANPI regionale, del Distretto militare di Bologna, dell’Istituto F. Parri e della rete degli Istituti storici della Resistenza esistenti sul territorio regionale, consultato il 16 aprile 2024
https://disci.unibo.it/it/biblioteca/collezioni/basi-di-dati/partigianiPurtroppo non è stato possibile risalire all’episodio preciso.
In realtà il bombardamento è avvenuto il 2 marzo 1945.
In risposta a un attacco partigiano in cui un solo soldato tedesco rimase ferito, il 23 dicembre 1944 vennero incarcerate a Villa Martuzzi (in località Campiglio di Vignola), sede di un comando de 16° SS-Feldersatz-Bataillon, diciassette persone: Clinio Amici, Marsilia Amici, Pietro Amici, Tilde Amici, Felice Bassini, Primo Bigi, Guglielmo Borghi, Ildebrando Cornacchi, Avito Magni, Nicola Nervuti, Guido Palmieri, Giovanni Piani, Dario Piccioli, Alberto Pisanelli, Artemisio Uccellari, Elio Uccellari, e Raimondo Uccellari. Le loro case vennero depredate e di loro non si seppe più nulla. Un bombardamento americano del marzo 1945 portò alla luce due fosse comuni in cui erano stati nascosti i loro corpi. La morte risultò essere stata provocata da numerose ferite, lesioni varie e fratture alla testa. Sulle due donne vennero trovate tracce di violenze sessuali.
I. VACCARI, Dalla parte della libertà: i caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della provincia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese, Coop Estense, Modena 1999, p. 592; C. GENTILE, I crimini di guerra tedeschi in Italia: 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, pp. 276, 277; E. GORRIERI, La Repubblica di Montefiorino, Il Mulino, Bologna 1966, Quarta edizione 1991, p. 320.